“acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.”
Dante, Convivio, I, 1
“acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.”
Dante, Convivio, I, 1
Cari compagni di navigazione,
avrete notato che negli ultimi tempi il Periscopio naviga nel mare della cultura piuttosto che (ricordatevi che è questo l’uso corretto della locuzione “piuttosto che”, ovvero quello comparativo, anziché l’ormai diffuso valore disgiuntivo!) nelle acque davvero agitate della politica, ma ogni tanto il mare si fa tranquillo, e allora siamo felici di segnalarlo.
https://www.pressenza.com/it/2020/02/inaugurato-il-nuovo-ambulatorio-medico-a-riace/
Che Michelangelo fosse un ammiratore di Dante è cosa nota: basti pensare che il sommo artista fu tra i firmatari di una lettera inviata nel 1519 dall’Accademia medicea e autorizzata dal primo Papa Medici, Leone X, con cui si reclamava la restituzione delle spoglie del Poeta e che, nel caso ciò fosse avvenuto, ne avrebbe realizzato gratuitamente il monumento funebre. Altrettanto noto è che il sarcofago giunse a Firenze vuoto. Si rivelò invece una notizia priva di fondamento l’ipotesi dell’esistenza di un’edizione illustrata della Commedia realizzata dal Buonarroti. Come soli riferimenti precisi alla Commedia in un’opera michelangiolesca possiamo citare due brani pittorici, entrambi del Giudizio Universale: i demoni con i dannati sulle spalle, e Caronte nell’atto di sbarcare le anime all’Inferno. La prima immagine richiama Inferno XXI, 34-36: “L’omero suo, ch’era aguto e superbo,/ carcava un peccator con ambo l’anche,/ e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.”, dove si descrive uno dei diavoli che porta sulle spalle “un de li anzian di Santa Zita” (Inf., XXI 38), ossia uno dei numerosi barattieri di cui era “ben fornita” (Inf., XXI 40) la città di Lucca, per gettarlo nella pece bollente. Particolarmente interessante l’immagine con cui Michelangelo rappresenta Caronte all’opera: il pittore sposta l’azione dal momento dell’imbarco delle anime dannate, narrato in Inferno III, al momento dello sbarco, mantenendo il gesto del battere i dannati con il remo ma rivestendolo di diverso significato. Mentre nel poema dantesco Caronte percuote con il remo quei dannati che appena imbarcati tendono ad adagiarsi sul fondo della barca, Michelangelo raffigura il traghettatore infernale nell’atto di colpire quei dannati che tardano a sbarcare. Questo spostamento dell’azione e il diverso scopo del gesto, sconfessano l’idea dantesca di desiderio della pena per la quale le anime dei peccatori si muoverebbero spontaneamente verso la loro sorte mossi dalla volontà divina, come si legge nei celebri versi “ e pronti sono a trapassar lo rio,/ ché la divina giustizia li sprona,/ sì che la tema si volve in disio.” (Inf. III, 124-126), verso la chiusura del canto.
Simone Salvi
MICHELANGELO BUONARROTI
Giudizio universale, dettaglio
1541
Affresco
Se avete dei dubbi, vi segnaliamo l’ascolto del secondo movimento della sonata op.111: nel finale sentirete un motivo swing.
LvB arriva a Vienna nel 1792 con una lettera di presentazione scritta dal Conte Waldstein (a cui qualche anno dopo dedicò una celebre sonata) nella quale è presentato al colto pubblico musicale viennese come colui che aveva ricevuto “lo spirito di Haydn dalle mani di Mozart”. Attraverso il metodo compositivo della variazione sul tema, spesso di piccole cellule tematiche, porta il classicismo musicale alla sua massima complessità. Romantico più nello spirito che nella musica, prefigurò il Novecento musicale, oltre mezzo secolo prima che questo ebbe a venire.
I periscopisti Mariano e Simone, la cui grande amicizia è nata sulle note beethoveniane, lo ricordano con gratitudine.
“Però puote anche parere così per l’organo visivo, cioè l’occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e in alcuna debilitade; sì come avviene molte volte, che per essere la tunica de la pupilla sanguinosa molto, per alcuna corruzione d’infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la stella ne pare colorata. 14. E per essere lo viso debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in su la carta umida: e questo è quello per che molti, quando vogliono leggere, si dilungano le scritture da li occhi, perché la imagine loro vegna dentro più lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera discreta ne la vista. 15. E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. 16. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de l’occhio con l’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato de la vista. E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote parere non com’ella è.”
Dante, Convivio III IX 13-16
Il canto XXIII del Paradiso si svolge, insieme con quello precedente e i quattro successivi, nel cielo delle Stelle fisse. In apertura di canto si trova una delle similitudini più celebri della Commedia, nella quale Dante paragona Beatrice, che si trova con lo sguardo rivolto verso l’alto nella trepida attesa del Trionfo di Cristo, ad un uccellino che attende l’alba per poter uscire dal nido a procacciare il cibo per i suoi piccoli. Da notare l’ampiezza della similitudine, dato non insolito nella Commedia, che occupa ben tre terzine. Ma un altro aspetto particolarmente significativo è quello lessicale, che conferma la misura della paternità dantesca dell’italiano: ci si soffermi, per esempio, sul verso 3 “la notte che le cose ci nasconde”, costituito da verbo, sostantivi e parole grammaticali che appartengono tutte al lessico base dell’italiano moderno. Utile ricordare che fu per primo Tullio De Mauro, con il prezioso ausilio dello strumento informatico, a quantificare tale paternità linguistica dimostrando che agli inizi del Trecento, quando Dante inizia a comporre “il poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra“, il vocabolario fondamentale dell’italiano era formato per circa il 60%; a fine secolo, quando la Commedia era terminata e già largamente diffusa, il valore raggiunge il 90%. Per vocabolario fondamentale si intende quell’insieme di parole -nel caso dell’italiano sono circa duemila- che da sole ci consentono di produrre la gran parte dei testi orali o scritti. Si calcola che il 90- 92% dei testi che produciamo siano costituiti da queste parole fondamentali. De Mauro ha dunque dimostrato che quasi milleottocento parole del lessico fondamentale dell’italiano erano già presenti in Dante.
Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;
Par. XXIII, 1-9
Simone Salvi
Nell’immagine l’epigrafe sulla facciata di Palazzo Gianfigliazzi, in lungarno Corsini a Firenze, che ricorda il soggiorno di Alessandro Manzoni in città tra l’estate e l’autunno del 1827. Lo scrittore si recò nel capoluogo toscano pochi mesi dopo l’uscita della prima edizione dei Promessi Sposi, nota come “Ventisettana”, mosso dall’intento di una revisione linguistica del romanzo, che poi effettivamente avvenne e che è testimoniata dalla celebre espressione con cui in una lettera alla madre Giulia Beccaria ebbe a definire la città toscana come quella “nelle cui acque risciacquai i miei panni”. Non riportiamo qua le vicende compositive dei Promessi Sposi successive al soggiorno fiorentino ma ci limitiamo a notare che suona un po’come beffa il passo dell’epigrafe “volle scrivere egli”, se teniamo conto che tra le novità linguistiche apportate dal Manzoni all’italiano si segnala l’abbandono degli allora diffusi “egli/ella” a favore di “lui/lei”: una delle novità operate dal grande scrittore nel solco di un rinnovamento della lingua italiana che segnò il passo decisivo verso l’italiano moderno.
Simone Salvi