Questa splendida miniatura di accompagnamento a Purgatorio I raffigura in un’unica scena Dante e Virgilio che dalla ‘natural burella‘ escono ‘a riveder le stelle‘ e il successivo incontro con il severissimo Catone sulla spiaggia del Purgatorio. Il codice è il Palatino 313, noto anche come Codice Poggiali (dal nome di uno dei suoi possessori ottocenteschi: l’editore livornese Gaetano Poggiali), oggi conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze. L’autore della miniatura, ignoto, è indicato come ‘Maestro del Dante di Petrarca’ sulla base dell”affinità stilistica con l’autore delle illustrazioni miniate che adornano il codice Vaticano Latino 3199, noto per essere il manoscritto che Boccaccio donò all’amico Petrarca intorno al 1350.

“Se fosse amico il re dell’universo,/ noi pregheremmo lui della tua pace,/ poi c’hai pietà del nostro mal perverso” (Inf., V 91-93)

Questi versi, celebri e bellissimi, non hanno bisogno di parafrasi. Da sempre i commentatori si sono interrogati sull’atteggiamento di Dante nei confronti dei due amanti, fornendo diverse interpretazioni. Certamente si tratta di un comportamento che ad una prima lettura può apparire insolito, alla luce del fatto che ci troviamo nell’Inferno. Ma un atteggiamento simile lo troviamo anche qualche canto più avanti, ancora nell’Inferno, quando Dante incontra il suo maestro Brunetto Latini con il quale vorrebbe addirittura soffermarsi a conversare. Soprattutto, dobbiamo tenere ben presente la distanza tra Dante autore (auctor) e Dante personaggio (agens). Si noti che la parola “pietà” ha 19 occorrenze nella Commedia, 10 delle quali nell’Inferno e ben 3 di esse nel canto di Francesca.
Ascoltiamo il commento di Luca Serianni.
Potremmo dire che ogni giorno è Dantedì, cari amici.

 

 

Commentiamo un celebre passo di Paradiso XVII

Tu lascerai ogne cosa diletta  più caramente;

e questo è quello strale

che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,

sarà la compagnia malvagia e scempia

con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia

si farà contr’ a te; ma, poco appresso,

ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.

Paradiso, XVII 55-66

 

I versi che oggi commentiamo sono tra i più celebri del Paradiso e di tutta la Commedia. Queste quattro terzine, collocate nel canto che occupa la posizione centrale della Cantica, costituiscono l’ultima predizione dell’esilio di Dante e forse anche la più trasparente e dolorosa. Ricordiamo che già nelle cantiche precedenti diversi personaggi avevano profetizzato al Poeta l’esilio a cui sarà costretto: Farinata degli Uberti (Inferno X), Brunetto Latini (Inferno XV), Vanni Fucci (Inferno XXIV), Corrado Malaspina (Purgatorio VIII) e Oderisi da Gubbio (Purgatorio XI). Tra questi il ladro Vanni Fucci, con atteggiamento addirittura sdegnoso, aveva mostrato piacere nell’annunciare a Dante la triste condizione a cui andrà incontro ( E detto l’ho perché dolor ti debbia! Inf., XXIV, 151). Ben diverso è il tono della profezia pronunciato da Cacciaguida, che, dobbiamo ricordare, era avo di Dante, perché in questo caso ci troviamo nel Paradiso dove i beati si mostrano sempre desiderosi e lieti di risolvere le domande e i dubbi del pellegrino. Le parole di Cacciaguida non necessitano di parafrasi, tanto sono chiare, ma piuttosto può essere utile un richiamo al contesto storico a cui si fa riferimento nelle ultime due terzine. La condanna di Dante e il conseguente esilio sono del 1302, anno a partire dal quale il Poeta per tutto il resto dei suoi anni si troverà a viaggiare nell’Italia settentrionale fino a stabilirsi a Ravenna dove poi morirà. Nei primi due anni dopo l’allontanamento da Firenze si pensa che Dante sia rimasto in Toscana e sappiamo con certezza che unitosi agli altri guelfi bianchi fuorusciti e ad alcuni ghibellini (questo non deve meravigliare: alcune fazioni di guelfi e ghibellini si allearono più volte tra loro), tentò più volte un ritorno in città dove ormai erano al potere i guelfi neri. Qua può essere utile una breve digressione che ha il valore di un paragone con la politica dei nostri giorni. Oggi sulla scena politica di un Paese che non sia un regime totalitario coesistono maggioranza e opposizione; ai tempi di Dante non era così, e non solo a livello “nazionale” perché l’Italia non era ancora politicamente una nazione, ma anche nelle città: quando una parte prendeva il potere, l’altra veniva cacciata e doveva lasciare la città. Nelle turbinose lotte tra guelfi e ghibellini che tra Duecento e Trecento scandirono la storia della Toscana e non solo, determinando conseguenze sugli assetti politici di tutta la penisola, di volta in volta la parte perdente veniva mandata in esilio. Gli stessi antenati di Dante erano stati esiliati nella vicina Prato, dopo che i ghibellini assunsero il governo della città nel 1248 e nel 1260 (chi segue questi argomenti riconoscerà nel 1260 la data della battaglia di Montaperti, citata anche in Inferno X). La “compagnia malvagia e scempia” a cui allude Cacciaguida è proprio quel gruppo di esiliati ai quali Dante si unì nel tentativo di rientrare a Firenze. Cacciaguida dice a Dante che quelle persone gli si rivolteranno contro fino alla rottura definitiva che fu la Battaglia della Lastra (1304), per cui quella compagnia “n’avrà rossa la tempia”, ovvero sarà sconfitta nel sangue. Dante decise di non partecipare allo scontro e ruppe così definitivamente con gli altri esuli. A questa rottura allude nella sua profezia Farinata degli Uberti quando nel canto decimo dell’Inferno, uno dei più grandi del poema e che è noto appunto come “il canto di Farinata”, dice a Dante versi anch’essi molto famosi: Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge,/ che tu saprai quanto quell’arte pesa (X 79-81): non passeranno cinquanta mesi (“la faccia della donna che qui regge” è la Luna, venerata come Proserpina dea degli Inferi e che compie il suo moto di rotazione e rivoluzione in circa un mese) che tu (Dante) saprai quanto sarà difficile “l’arte” di rientrare a Firenze. Sappiamo che Dante colloca il suo viaggio oltremondano nell’aprile dell’ anno 1300, dunque aggiungendo cinquanta mesi a quell’anno arriviamo a luglio del 1304, data della battaglia della Lastra.

Simone Salvi

Lezione del prof. Luca Serianni

Splendida lezione del professor Luca Serianni sul tema delle invettive dantesche nella Commedia.
La lezione fa parte di un ciclo di tre incontri, dedicati a tre diversi aspetti della Commedia, che il professor Serianni ha tenuto al Teatro Eliseo di Roma.

Pubblicato da Teatro Eliseo su Lunedì 15 ottobre 2018

Pubblicato da Teatro Eliseo su Lunedì 15 ottobre 2018

Dante e la visione di Dio

Nel XXXIII del Paradiso Dante si trova nell’Empireo, dove grazie alla preghiera di San Bernardo alla Vergine e alla di lei intercessione, è finalmente pronto alla visione di Dio. Il Poeta ammette l’insufficienza della sua lingua a descrivere tale ineffabile visione (“Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio. Par.XXXIII, vv. 55-57). Dio appare al Poeta pellegrino come un punto luminoso (luce etterna, ivi, v. 83) nel cui vede racchiuso tutto l’Universo. Nel descrivere questa visione Dante crea una delle sue più celebri terzine e sicuramente una delle più alte -forse la più alta?- e compiute descrizioni della visione di Dio della letteratura di ogni tempo; nella profondità della luce divina egli vede, legato come fogli in unico volume, tutto ciò che per l’Universo a noi appare sparso:

“Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna.”

(Paradiso XXXIII, vv. 85- 87)

Simone Salvi

Un breve chiarimento a proposito della “modernità” di Dante

Quello della modernità di Dante è un aspetto del Poeta spesso abusato e utilizzato in modo improprio. Dante e la Commedia sono certamente moderni, talvolta persino contemporanei, per molti aspetti, sia di pensiero che linguistici. La Commedia è contemporanea dal punto di vista lessicale: come ha evidenziato uno studio del professor Tullio De Mauro, circa il novanta per cento delle parole fondamentali di uso corrente nella lingua italiana (si tratta di circa duemila vocaboli) erano già presenti nella poesia del Trecento e in particolare nella Commedia. In Dante uomo si possono cogliere, e dovremmo farne tesoro, la passione civile, l’impegno, la partecipazione politica, una sensibilità d’animo verso certi sentimenti che accompagnano l’uomo fin dalla sua esistenza. Ma in termini di formazione culturale il Poeta era un uomo profondamente del suo tempo. La sua cultura era fortemente intrisa dei concetti filosofici e scientifici, teologici e quindi morali, dell’epoca. Volere a tutti i costi attualizzare Dante è un errore che può rendere ridicoli. Quando non si è in grado di distinguere l’economia del contado fiorentino di fine Duecento dall’economia dell’Europa di oggi, dovremmo evitare di coinvolgere il Sommo Poeta in analisi sconclusionate ed errate che avrebbero il solo scopo di strumentalizzare quella che è forse la cima più alta della letteratura mondiale di ogni tempo a fini di propaganda politica contemporanea. E ricordiamoci che Dante fu esule e migrante, e che in questa condizione scrisse il suo capolavoro.

Simone Salvi

http://www.ilgiornale.it/news/dante-alighieri-contro-immigrati-e-caritas-1123980.html