Dante alla Sistina

 Che Michelangelo fosse un ammiratore di Dante è cosa nota: basti pensare che il sommo artista fu tra i firmatari di una lettera inviata nel 1519 dall’Accademia medicea e autorizzata dal primo Papa Medici, Leone X, con cui si reclamava la restituzione delle spoglie del Poeta e che, nel caso ciò fosse avvenuto, ne avrebbe realizzato gratuitamente il monumento funebre. Altrettanto noto è che il sarcofago giunse a Firenze vuoto. Si rivelò invece una notizia priva di fondamento l’ipotesi dell’esistenza di un’edizione illustrata della Commedia realizzata dal Buonarroti. Come soli riferimenti precisi alla Commedia in un’opera michelangiolesca possiamo citare due brani pittorici, entrambi del Giudizio Universale: i demoni con i dannati sulle spalle, e Caronte nell’atto di sbarcare le anime all’Inferno. La prima immagine richiama Inferno XXI, 34-36: “L’omero suo, ch’era aguto e superbo,/ carcava un peccator con ambo l’anche,/ e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.”, dove si descrive uno dei diavoli che porta sulle spalle “un de li anzian di Santa Zita” (Inf., XXI 38), ossia uno dei numerosi barattieri di cui era “ben fornita” (Inf., XXI 40) la città di Lucca, per gettarlo nella pece bollente. Particolarmente interessante l’immagine con cui Michelangelo rappresenta Caronte all’opera: il pittore sposta l’azione dal momento dell’imbarco delle anime dannate, narrato in Inferno III, al momento dello sbarco, mantenendo il gesto del battere i dannati con il remo ma rivestendolo di diverso significato. Mentre nel poema dantesco Caronte percuote con il remo quei dannati che appena imbarcati tendono ad adagiarsi sul fondo della barca, Michelangelo raffigura il traghettatore infernale nell’atto di colpire quei dannati che tardano a sbarcare. Questo spostamento dell’azione e il diverso scopo del gesto, sconfessano l’idea dantesca di desiderio della pena per la quale le anime dei peccatori si muoverebbero spontaneamente verso la loro sorte mossi dalla volontà divina, come si legge nei celebri versi “ e pronti sono a trapassar lo rio,/ ché la divina giustizia li sprona,/ sì che la tema si volve in disio.” (Inf. III, 124-126), verso la chiusura del canto.

Simone Salvi

MICHELANGELO BUONARROTI

Giudizio universale, dettaglio

1541

Affresco

Dante 2021

Circa la proposta di trasferimento delle spoglie di Dante da Ravenna a Firenze, in occasione delle celebrazioni del settimo anniversario della morte del Poeta, leggiamo in questi giorni varie prese di posizione. Tra le motivazioni portate da coloro che sono contrari a tale operazione occorrono però, e con particolare frequenza, alcuni errori che risultano evidenti alla luce della conoscenza delle vicende biografiche del maggior poeta italiano e di quelle relative alla composizione di alcune sue opere. Segnatamente si riporta che Dante non avrebbe mai voluto tornare, neppure dopo la morte, nella sua Firenze, città che quando lui ancora in vita lo condannò a morte e lo costrinse al noto esilio. Nell’articolo di cui incollo il link qua sotto, l’ottimo Tomaso Montanari, in una voce che forse indugia fin troppo sulla polemica politica in un contesto in cui non è così stringente, riporta il celebre passo del Convivio nel quale il Poeta descrive la sua condizione di “peregrino” esule, che a causa della fuga da Firenze lo costringe alla “dolorosa povertade”, e che proprio per questo dato biografico faremmo l’ennesimo torto a Dante portando oggi i suoi resti nella propria città natale. Evidentamente però Montanari, e con lui molti altri, trascura un decisivo passo della Commedia, in apertura di Paradiso XXV, nel quale il padre della lingua italiana spera, una volta placate le faziosità che lo costrinsero all’esilio, di tornare a Firenze ed essere incoronato Poeta nel Battistero di San Giovanni, dove fanciullo fu battezzato. Certamente si assiste ad un cambio di pensiero, e soprattutto alla manifestazione di una speranza, rispetto a quanto affermato nel Convivio ed anche in contrasto alle invettive e alle parole di disprezzo che Dante, anche nella Commedia, rivolge a Fiorenza. Ma occorre notare che con buona probabilità almeno dieci anni separano la scrittura del Convivio, avviata probabilmente all’inizio dell’esilio (1303- 1306), e la conclusione del Paradiso, le cui coordinate compositive lo collocano tra il 1315 e il 1321. Ecco i versi, commoventi e colmi di speranza, da Paradiso XXV:

“Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
dal bello ovile ov’io dormì agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;” (Par. XXV, I-IX)

Simone Salvi

https://emergenzacultura.org/2019/08/02/tomaso-montanari-sulla-pelle-di-dante-troppi-sciacalli-2/?fbclid=IwAR3a4e67L77qKB0t9guL2aBWvpVerOt3i_u_uKMrZ22LudmSA2-d6jmanU8

Splendido passo del Convivio dove emerge l’impegno civile ed intellettuale di Dante.

Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolemente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerevoli quasi sono li ‘mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca!

Nel 1891 Giuseppe Verdi rispondeva così ad un signor Bramanti che lo aveva importunato per un monumento a Dante in Ravenna

” Rimediare all’inconveniente… Ella dice? Ma quale? Inconveniente perché io non ho mandato il mio obolo pel monumento a Dante? Dante si è innalzato da se stesso monumento tale, e di tale altezza, cui nissuno arriva. Non abbassiamolo con manifestazioni che lo mettono a livello di tant’altri, anche i più mediocri. A quel nome io non oso alzare inni: abbasso il capo, e venero in silenzio “.