“la notte che le cose ci nasconde”: una prova della paternità dantesca della lingua italiana


Il canto XXIII del Paradiso si svolge, insieme con quello precedente e i quattro successivi, nel cielo delle Stelle fisse. In apertura di canto si trova una delle similitudini più celebri della Commedia, nella quale Dante paragona Beatrice, che si trova con lo sguardo rivolto verso l’alto nella trepida attesa del Trionfo di Cristo, ad un uccellino che attende l’alba per poter uscire dal nido a procacciare il cibo per i suoi piccoli. Da notare l’ampiezza della similitudine, dato non insolito nella Commedia, che occupa ben tre terzine. Ma un altro aspetto particolarmente significativo è quello lessicale, che conferma la misura della paternità dantesca dell’italiano: ci si soffermi, per esempio, sul verso 3 “la notte che le cose ci nasconde”, costituito da verbo, sostantivi e parole grammaticali che appartengono tutte al lessico base dell’italiano moderno. Utile ricordare che fu per primo Tullio De Mauro, con il prezioso ausilio dello strumento informatico, a quantificare tale paternità linguistica dimostrando che agli inizi del Trecento, quando Dante inizia a comporre “il poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra“, il vocabolario fondamentale dell’italiano era formato per circa il 60%; a fine secolo, quando la Commedia era terminata e già largamente diffusa, il valore raggiunge il 90%. Per vocabolario fondamentale si intende quell’insieme di parole -nel caso dell’italiano sono circa duemila- che da sole ci consentono di produrre la gran parte dei testi orali o scritti. Si calcola che il 90- 92% dei testi che produciamo siano costituiti da queste parole fondamentali. De Mauro ha dunque dimostrato che quasi milleottocento parole del lessico fondamentale dell’italiano erano già presenti in Dante.

Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;

Par. XXIII, 1-9

Simone Salvi

Giornata mondiale della Poesia, 21 Marzo 2019

In occasione della Giornata mondiale della Poesia 2019, come riflessione sul valore di questo altissimo genere letterario propongo i famosi versi conclusivi del canto XVII del Paradiso di Dante, dove il Poeta, attraverso le parole pronunciate dal suo avo Cacciaguida, mostra piena consapevolezza del suo ruolo di intellettuale e delle potenzialità implicite nella parola scritta.
Evidente il riecheggiare degli splendidi versi di Orazio “Exegi monumentum aere perennius” – ho fatto un monumento che durerà più del bronzo- (Odi, III, 30).

“Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.

Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.

Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.

Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,

che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia.”

Paradiso, XVII, 124- 142

Interventi del prof. Alessandro Barbero e del prof. Luca Serianni in occasione della presentazione della “Nuova edizione critica della Commedia” a cura del prof. Enrico Malato edita da Salerno Editrice

Dante onomaturgo

Tra i meriti linguistici di Dante riveste notevole importanza e fascino quello onomaturgico. La carica neologica si esprime con particolare frequenza nel Paradiso, dove il Poeta si trova a descrivere l’ineffabile, ossia la visione di Dio. In questa cantica Dante procede per via figurale ed analogica ricorrendo alle similitudini, di cui se ne contano più di cinquecento in tutta la Commedia, il numero maggiore delle quali in questa cantica, e a parole inventate per lo scopo. Molte di queste parole rappresentano degli hapax, ovvero parole che compaiono una sola volta, non solo nella Commedia ma in tutta l’opera dantesca. Come riportato dagli studi compiuti negli anni Ottanta da due illustri dantisti, Ignazio Baldelli e Ghino Ghinassi, la capacità neologica di Dante è impiegata soprattutto nella creazione di parole composte e derivate, molte delle quali appartenenti alla categoria lessicale dei verbi parasintetici (parole derivate ottenute dall’aggiunta simultanea di un prefisso ed un suffisso ad una parola base). Sono parole ricche di suggestione, efficacissime allo scopo per cui sono state ideate e che difficilmente si dimenticano dopo averle incontrate. Eccone alcune: imparadisare, inforsarsi, indiarsi, insemprarsi, inzaffirarsi, intuarsi, inluarsi, immillarsi, indovarsi. Interessante notare che le ultime due hanno avuto, rispettivamente, una ripresa letteraria ed un uso nel lessico specialistico. Immillarsi (Par. XXVIII, 93) ricompare nella celebre poesia di Guido Gozzano “L’amica di Nonna Speranza”, per descrivere un lampadario che dal centro di una stanza riflette con innumerevoli giochi di luce l’arredamento della stanza: “Il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto” (vv. XI- XII). Indovarsi (Par. XXXIII, 138) è entrato nel linguaggio medico, comparendo, seppur raramente, nei referti delle indagini di imaging, per indicare collocazione non precisata, ad esempio di una lesione sospetta.

Simone Salvi

Ritratti di Dante

Numerosi sono stati i pittori che a partire dal terzo decennio del Trecento hanno raffigurato Dante nelle loro opere. La fama del Poeta, quando egli era ancora in vita, crebbe parallelamente al successo che la sua Commedia ebbe già subito dopo la messa in circolazione delle prime due Cantiche. Un elenco in ordine cronologico che citi almeno i pittori più famosi non può trascurare Giotto (o comunque artisti della sua bottega), Taddeo Gaddi, Andrea del Castagno, Domenico di Michelino, Sandro Botticelli, Luca Signorelli, Raffaello, Agnolo Bronzino, fino ad arrivare a Salvador Dalì. In rete potete trovare facilmente i ritratti eseguiti dagli artisti summenzionati e da molti altri, qua ne pubblico due per alcuni motivi che subito spiego. Quello in alto, di scuola giottesca, si trova sulla parete raffigurante il Giudizio Universale nella Cappella della Maddalena in quello che oggi è il Palazzo del Bargello, a Firenze. L’affresco, la cui datazione è compresa tra il 1332 e il 1337, per la sua collocazione temporale ha buone probabilità di essere, ad oggi, la raffigurazione più fedele di Dante. Un affresco che subito ci suggerisce di ripensare la forma del naso del Poeta ormai entrata nell’immaginario collettivo, ridimensionandone l’aspetto aquilino. Il ritratto in basso, quello più celebre tra i molti del Poeta dato anche l’altissimo valore artistico del luogo in cui è collocato, è opera di Raffaello Sanzio ed è datata 1509. Dante è raffigurato nella parte inferiore dell’affresco noto come “Disputa del Sacramento”, facente parte del ciclo di pitture che decorano la Stanza della Segnatura. Una crepa nell’intonaco fende il volto del Poeta, qui raffigurato nel concilio di teologi, dottori della Chiesa e pontefici che rappresentano la Chiesa cosiddetta militante, collocata al di sotto di quella trionfante formata dalla Trinità circondata dalle più alte gerarchie angeliche, Maria e Giovanni Battista e altri angeli. Occorre precisare che Dante nella Stanza della Segnatura compare ritratto due volte: oltre che nella Disputa lo troviamo anche accanto ad Omero nell’affresco raffigurante il Parnaso, anche questo, come tutti gli affreschi della Stanza, opera di Raffaello. Il Dante della Disputa, sicuramente più corrispondente all’idea più comune del suo volto, è stato scelto come immagine dell’enorme progetto NECOD, Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante. Il prezioso progetto editoriale, comprendente 8 volumi in 15 tomi, della Salerno Editrice e promosso dal Centro Pio Rajna di cui trovate i dettagli cliccando sul link http://www.centropiorajna.it/nuova_edizione.html , ha già licenziato alcuni dei suoi lavori, ultimo dei quali, questo mese, un’edizione commentata della Commedia basata sulla nota edizione di Petrocchi (1968) sottoposta ad una attenta revisione nel dettato e nell’interpunzione, accompagnata ad un Dizionario della Divina Commedia. Il terminus ante quem per la pubblicazione di tutta l’opera è stato fissato nel 2021, Settecentenario della morte del Poeta.

Simone Salvi

     

 

Borges sulla Commedia

“La Commedia è un libro che tutti dobbiamo leggere. Non farlo significa privarci del dono più grande che la letteratura può offrirci.” J. L. Borges

Ed il grande Borges la Commedia la leggeva e rileggeva. Ne entrò in contatto sui “silenziosi e lenti tranvai” (Abbozzo di autobiografia) che lo portavano, quasi quarantenne e famoso ma ancora spiantato e a carico del padre, presso la biblioteca di Buenos Aires dove era impiegato. Leggeva inizialmente una tradizione in inglese con testo originale a fronte, ma arrivato al XXX Canto del Purgatorio, nel “preciso momento” in cui Virgilio lascia Dante, si rende conto di “poter leggere direttamente il testo italiano e guardare quello inglese solo di tanto in tanto.

 

Simone Salvi

 

 

 

 

Perché Dante è davvero “padre”- Contributo per una corretta definizione di paternità dantesca

“Peregrino, quasi mendicando, sono andato, […] Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento che secco che vapora la dolorosa povertade.” ( Convivio, I, iii, 4-5 ). Con queste parole Dante descrive la propria condizione di esule, allora appena iniziata dato che la stesura del Convivio si colloca tra il 1304 ed il 1307. Nel Gennaio del 1302 la città di Firenze aveva condannato in contumacia con due sentenze, la prima del 18 e la successiva del 27 del mese, il Poeta all’esclusione perpetua dalle cariche pubbliche, al bando al confino per due anni e al pagamento di una consistente ammenda, quale falsario e barattiere. Nel Marzo dello stesso anno, non essendosi Dante e gli altri imputati presentati a rendere conto dei loro reati e a pagare l’ammenda, la pena si tramutò in condanna a morte. Sappiamo che i reali motivi della condanna risiedono nella complessa situazione delle lotte intestine alla città di Firenze ed in particolare a quelle tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri della parte Guelfa, nelle quali si inserirono le vicende in corso su più larga scala dello scontro tra Impero e Papato. Fatto sta che per il maggior poeta della letteratura italiana iniziò una vita da esule migrante che si concluderà solo con la morte, presso i lidi ravennati, nel 1321. Proprio durante i sofferti anni dell’esilio, in un’Italia che politicamente non esisteva se non in frammenti sotto forma di corti, Dante, lontano dalla sua Firenze e avendo per “patria il mondo“, come scrive nel De vulgari eloquentia ricorrendo ad una splendida ed efficacissima similitudine, (“noi, a cui patria è il mondo come ai pesci il mare” DvE, I, VI, 3) con un vantaggio di oltre cinquecento anni sull’unità politica del Paese, inventa la lingua italiana facendo assurgere a tal ruolo il fiorentino letterario del suo tempo. Dante si fece quindi padre della lingua italiana e, come artefice della prima unificazione della futura Italia, quella linguistica, appunto, padre dell’Italia stessa. La qualifica di “padre” è attribuita al Poeta già a partire da pochi anni dopo la sua morte dal rimatore Antonio da Ferrara (1315- 1374) in una sua lettera al collega e rimatore ravennate Menghino Mezzani, nella quale il ferrarese invoca Calliope affinché sia di aiuto ad un “nobile” sodalizio di poeti in volgare a seguire senza fatica e senza difetto le orme del “padre” Dante: “a zò che questo nobil sodalizio , / in volgar poesi’, senza fatica/ seguisca il padre Dante, senza vizio.” Padre lo è stato anche in tempi a noi più vicini per Foscolo (O Padre! O Vate!), Carducci e D’Annunzio. Sulla paternità linguistica di Dante si vedano i risultati di un mirabile lavoro del compianto professor Tullio De Mauro, il quale , con l’ausilio prezioso degli strumenti informatici, ha quantificato tale paternità dimostrando che la lingua che oggi parliamo sia stata codificata per oltre il 90% da Dante agli inizi del Trecento. Uno splendido omaggio alla paternità linguistica dantesca dell’italiano si trova anche in un dialogo contenuto nel romanzo di Thomas Mann “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”, dove il portiere di un albergo interrogato da un avventore sulla lingua italiana afferma “Gli angeli in Cielo parlano italiano“. Dunque se uno dei massimi rappresentanti della letteratura mondiale colloca l’italiano in Paradiso e sulla bocca degli angeli, è grazie al “padre” Dante. Sulla condizione di Dante esule molto si è scritto, partendo dai riferimenti che il poeta stesso ne fa nei già citati De vulgari eloquentia e Convivio, ma soprattutto nella Commedia. Nel poema l’esilio è profetizzato, post eventum, nell’Inferno da Ciacco, Farinata degli Uberti e Brunetto Latini; nel Purgatorio le profezie continuano a partire dal canto VIII con quella di Corrado Malaspina, presso la cui corte Dante soggiornò nei primi anni del suo peregrinare, e nel canto XI, ambientato nel girone dei superbi, da Oderisi da Gubbio attraverso la vicenda di un suo compagno di penitenza, il senese Provenzan Salvani. Costui “si condusse a tremar per ogni vena” (Purg. XI, 138) umiliandosi a chiedere l’elemosina nella Piazza del Campo per riscattare un suo amico fatto prigioniero da Carlo d’Angiò. Con la vicenda di Salvani inizia quella identificazione figurale tra personaggio costretto a mendicare e Poeta stesso che troverà ancor più efficace riscontro nel canto VI del Paradiso dove l’imperatore Giustiniano, il cui eloquio occupa l’intero canto, racconta a Dante la vicenda di Romeo di Villanova, un tempo Ministro del Conte di Provenza Raimondo Berengario, che calunniato dalle invidie di qualche altro personaggio di corte, offeso e umiliato, non cede al suicidio come Pier della Vigna (Inferno, XIII) ma affronta la sofferenza dell’esilio e della povertà con dignità e coraggio, mendicando il pane a tozzo a tozzo: “indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe” (Par. VI, 139- 142). Ai giorni nostri, dove i flussi migratori ci pongono continue e importanti riflessioni e generano innumerevoli dibattiti, si è tentato di utilizzare Dante in funzione anti- migranti: a tal proposito si recuperi in rete un articolo apparso sul quotidiano Il Giornale nel Maggio 2015 a firma di Matteo Carnieletto dove si equipara l’inurbamento a Firenze dei mercanti del contado fiorentino mossi dall’aspettativa di maggiori guadagni alla presunta invasione degli odierni migranti. Sarebbe forse più opportuno sorvolare su tentativi come questo, (del resto chi vorrà leggere l’articolo ne trarrà le ovvie conclusioni) ma risulta almeno doveroso far notare che prendere di peso una terzina da un canto della Commedia, strapparla dal suo contesto medievale e attribuirle una valenza moderna a sostegno di una tesi di comodo, avulsa da un benché minimo tentativo di storicizzazione, è operazione culturalmente improponibile e indegna di un giornalismo serio. Così come sono spesso fallaci i tentativi di attualizzare, quasi a tutti i costi, il pensiero di Dante uomo: lo si è spesso fatto, ad esempio, in funzione anti- Islam citando la punizione che nella Commedia è riservata a Maometto. Dante era un uomo profondamente del suo tempo, estremamente radicato nel sistema culturale- filosofico dell’epoca, e volerlo portare di peso nella contemporaneità produce spesso risultati scarsi, quando non ridicoli. Certamente, Dante era, è e sarà moderno per alcuni suoi aspetti, anzitutto quello linguistico, come abbiamo sopra accennato, e per alcuni aspetti del suo pensiero, tra i quali il suo aprire le porte all’Umanesimo per il suo incessante interrogarsi su quanto stesse facendo come uomo e come poeta. Nel dibattito intorno al tema delle migrazioni può essere chiamato in causa per stimolarci ad una riflessione: occorre tenere a mente che l’identità di un individuo si realizza, prima che in ogni altro aspetto, nella lingua materna, così potentemente agganciata alla cultura e agli affetti, assai più che attraverso la parte del mondo in cui si poggiano i piedi. Mondo nel quale, come scrisse Paolo Rumiz in un suo reportage dai Balcani devastati dalla guerra e pubblicato su Repubblica, “i pesci non hanno bandiera e il mare è salato ovunque”. In una Italia nella quale da quattro anni consecutivamente le nascite si attestano sotto la cifra di 500 mila all’anno e ogni anno in diminuzione rispetto al precedente, nel tanto e talvolta vacuo parlare di integrazione, dovremmo iniziare a considerare che le immigrazioni sono davvero una risorsa, che non ci si può sottrarre al dovere di accogliere chi fugge da guerre e fame e che un sano tentativo di integrazione dovrebbe partire proprio dall’insegnamento dell’italiano ai nuovi arrivati.

Simone Salvi

Dante e la visione di Dio

Nel XXXIII del Paradiso Dante si trova nell’Empireo, dove grazie alla preghiera di San Bernardo alla Vergine e alla di lei intercessione, è finalmente pronto alla visione di Dio. Il Poeta ammette l’insufficienza della sua lingua a descrivere tale ineffabile visione (“Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio. Par.XXXIII, vv. 55-57). Dio appare al Poeta pellegrino come un punto luminoso (luce etterna, ivi, v. 83) nel cui vede racchiuso tutto l’Universo. Nel descrivere questa visione Dante crea una delle sue più celebri terzine e sicuramente una delle più alte -forse la più alta?- e compiute descrizioni della visione di Dio della letteratura di ogni tempo; nella profondità della luce divina egli vede, legato come fogli in unico volume, tutto ciò che per l’Universo a noi appare sparso:

“Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna.”

(Paradiso XXXIII, vv. 85- 87)

Simone Salvi

Un breve chiarimento a proposito della “modernità” di Dante

Quello della modernità di Dante è un aspetto del Poeta spesso abusato e utilizzato in modo improprio. Dante e la Commedia sono certamente moderni, talvolta persino contemporanei, per molti aspetti, sia di pensiero che linguistici. La Commedia è contemporanea dal punto di vista lessicale: come ha evidenziato uno studio del professor Tullio De Mauro, circa il novanta per cento delle parole fondamentali di uso corrente nella lingua italiana (si tratta di circa duemila vocaboli) erano già presenti nella poesia del Trecento e in particolare nella Commedia. In Dante uomo si possono cogliere, e dovremmo farne tesoro, la passione civile, l’impegno, la partecipazione politica, una sensibilità d’animo verso certi sentimenti che accompagnano l’uomo fin dalla sua esistenza. Ma in termini di formazione culturale il Poeta era un uomo profondamente del suo tempo. La sua cultura era fortemente intrisa dei concetti filosofici e scientifici, teologici e quindi morali, dell’epoca. Volere a tutti i costi attualizzare Dante è un errore che può rendere ridicoli. Quando non si è in grado di distinguere l’economia del contado fiorentino di fine Duecento dall’economia dell’Europa di oggi, dovremmo evitare di coinvolgere il Sommo Poeta in analisi sconclusionate ed errate che avrebbero il solo scopo di strumentalizzare quella che è forse la cima più alta della letteratura mondiale di ogni tempo a fini di propaganda politica contemporanea. E ricordiamoci che Dante fu esule e migrante, e che in questa condizione scrisse il suo capolavoro.

Simone Salvi

http://www.ilgiornale.it/news/dante-alighieri-contro-immigrati-e-caritas-1123980.html