Questi celebri versi, che appartengono alla canzone dantesca “Io sento sì d’amor la gran possanza”, descrivono molto bene quello che provo ogni volta che mi dedico allo studio dell’opera dantesca.
Simone Salvi
Questi celebri versi, che appartengono alla canzone dantesca “Io sento sì d’amor la gran possanza”, descrivono molto bene quello che provo ogni volta che mi dedico allo studio dell’opera dantesca.
Simone Salvi
“Questo celebre attacco, che canta la nostalgia che sorprende, all’ora del tramonto, chi ha lasciato la propria patria, è retoricamente una perifrasi di tempo, come spesso se ne trovano in apertura di canto: si vuol designare infatti l’ora che segna l’inizio della notte, quell’ora che nell’ufficio canonico è detta «Compieta», come il suono della campana (v. 5) e l’inno cantato dalle anime (v. 13) lasciano chiaramente intendere. Ma la perifrasi diventa qui straordinaria proposizione di un grande tema, che investe da un lato tutta la condizione purgatoriale, e dall’altro la vita stessa di Dante: è il tema dell’esilio, proprio delle anime che sospirano la patria eterna, e insieme condizione storica, e dolorosa, del poeta narratore, che l’uno e l’altro esilio conosce e soffre in se stesso. In questo intreccio, e nella sobrietà che tempera e regge la pur grande dolcezza del sentimento, sta la grandezza e la suggestione di questa terzina.”
Anna Maria Chiavacci Leonardi
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’ han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand’io incominciai a render vano
l’udire e a mirare una de l’alme
surta, che l’ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l’orïente,
come dicesse a Dio: ’D’altro non calme’.
’Te lucis ante’ sì devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l’altre poi dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l’inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
Purg., VIII, 1-18.
Che Michelangelo fosse un ammiratore di Dante è cosa nota: basti pensare che il sommo artista fu tra i firmatari di una lettera inviata nel 1519 dall’Accademia medicea e autorizzata dal primo Papa Medici, Leone X, con cui si reclamava la restituzione delle spoglie del Poeta e che, nel caso ciò fosse avvenuto, ne avrebbe realizzato gratuitamente il monumento funebre. Altrettanto noto è che il sarcofago giunse a Firenze vuoto. Si rivelò invece una notizia priva di fondamento l’ipotesi dell’esistenza di un’edizione illustrata della Commedia realizzata dal Buonarroti. Come soli riferimenti precisi alla Commedia in un’opera michelangiolesca possiamo citare due brani pittorici, entrambi del Giudizio Universale: i demoni con i dannati sulle spalle, e Caronte nell’atto di sbarcare le anime all’Inferno. La prima immagine richiama Inferno XXI, 34-36: “L’omero suo, ch’era aguto e superbo,/ carcava un peccator con ambo l’anche,/ e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.”, dove si descrive uno dei diavoli che porta sulle spalle “un de li anzian di Santa Zita” (Inf., XXI 38), ossia uno dei numerosi barattieri di cui era “ben fornita” (Inf., XXI 40) la città di Lucca, per gettarlo nella pece bollente. Particolarmente interessante l’immagine con cui Michelangelo rappresenta Caronte all’opera: il pittore sposta l’azione dal momento dell’imbarco delle anime dannate, narrato in Inferno III, al momento dello sbarco, mantenendo il gesto del battere i dannati con il remo ma rivestendolo di diverso significato. Mentre nel poema dantesco Caronte percuote con il remo quei dannati che appena imbarcati tendono ad adagiarsi sul fondo della barca, Michelangelo raffigura il traghettatore infernale nell’atto di colpire quei dannati che tardano a sbarcare. Questo spostamento dell’azione e il diverso scopo del gesto, sconfessano l’idea dantesca di desiderio della pena per la quale le anime dei peccatori si muoverebbero spontaneamente verso la loro sorte mossi dalla volontà divina, come si legge nei celebri versi “ e pronti sono a trapassar lo rio,/ ché la divina giustizia li sprona,/ sì che la tema si volve in disio.” (Inf. III, 124-126), verso la chiusura del canto.
Simone Salvi
MICHELANGELO BUONARROTI
Giudizio universale, dettaglio
1541
Affresco
“Quan vei la lauzeta mover” (Quando vedo l’allodoletta muoversi) di Bernart de Ventadorn è una delle più celebri canzoni trobadoriche, qua nell’esecuzione inserita nella magnifica raccolta “Trouverès, Trobadours et grégorien” edita nel 1958 ed ancora oggi disponibile solo su vinile. Il tema della canzone è uno di quelli tipici della lirica trobadorica, ossia la sofferenza per un amore non corrisposto, alla quale l’autore contrappone, in apertura di brano, l’immagine bucolica e serena dell’allodola che vola cantando per poi tacere compiaciuta del proprio canto. A questa immagine ricorre Dante in Paradiso XX, utilizzandola come figurante di una delle tante similitudini che costellano la Commedia, per descrivere il progressivo “indiarsi” degli spiriti giusti disposti a formare la simbolica aquila nel cielo di Giove.
(Indiarsi è uno dei molti esempi di conio lessicale dantesco, e come la più parte di questi risultante da meccanismo di derivazione parasintetico, che compare in Paradiso IV, ad indicare l’internarsi in Dio).
Quale allodetta che ‘n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia,
Par. XX, 73-75
https://www.youtube.com/watch?v=wqrL3j9gV0U&list=OLAK5uy_nQuUttTlPY4IAXL-ijuwCFdIFGsjtvr6Y&index=2
Simone Salvi