Perché Dante è davvero “padre”- Contributo per una corretta definizione di paternità dantesca

“Peregrino, quasi mendicando, sono andato, […] Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento che secco che vapora la dolorosa povertade.” ( Convivio, I, iii, 4-5 ). Con queste parole Dante descrive la propria condizione di esule, allora appena iniziata dato che la stesura del Convivio si colloca tra il 1304 ed il 1307. Nel Gennaio del 1302 la città di Firenze aveva condannato in contumacia con due sentenze, la prima del 18 e la successiva del 27 del mese, il Poeta all’esclusione perpetua dalle cariche pubbliche, al bando al confino per due anni e al pagamento di una consistente ammenda, quale falsario e barattiere. Nel Marzo dello stesso anno, non essendosi Dante e gli altri imputati presentati a rendere conto dei loro reati e a pagare l’ammenda, la pena si tramutò in condanna a morte. Sappiamo che i reali motivi della condanna risiedono nella complessa situazione delle lotte intestine alla città di Firenze ed in particolare a quelle tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri della parte Guelfa, nelle quali si inserirono le vicende in corso su più larga scala dello scontro tra Impero e Papato. Fatto sta che per il maggior poeta della letteratura italiana iniziò una vita da esule migrante che si concluderà solo con la morte, presso i lidi ravennati, nel 1321. Proprio durante i sofferti anni dell’esilio, in un’Italia che politicamente non esisteva se non in frammenti sotto forma di corti, Dante, lontano dalla sua Firenze e avendo per “patria il mondo“, come scrive nel De vulgari eloquentia ricorrendo ad una splendida ed efficacissima similitudine, (“noi, a cui patria è il mondo come ai pesci il mare” DvE, I, VI, 3) con un vantaggio di oltre cinquecento anni sull’unità politica del Paese, inventa la lingua italiana facendo assurgere a tal ruolo il fiorentino letterario del suo tempo. Dante si fece quindi padre della lingua italiana e, come artefice della prima unificazione della futura Italia, quella linguistica, appunto, padre dell’Italia stessa. La qualifica di “padre” è attribuita al Poeta già a partire da pochi anni dopo la sua morte dal rimatore Antonio da Ferrara (1315- 1374) in una sua lettera al collega e rimatore ravennate Menghino Mezzani, nella quale il ferrarese invoca Calliope affinché sia di aiuto ad un “nobile” sodalizio di poeti in volgare a seguire senza fatica e senza difetto le orme del “padre” Dante: “a zò che questo nobil sodalizio , / in volgar poesi’, senza fatica/ seguisca il padre Dante, senza vizio.” Padre lo è stato anche in tempi a noi più vicini per Foscolo (O Padre! O Vate!), Carducci e D’Annunzio. Sulla paternità linguistica di Dante si vedano i risultati di un mirabile lavoro del compianto professor Tullio De Mauro, il quale , con l’ausilio prezioso degli strumenti informatici, ha quantificato tale paternità dimostrando che la lingua che oggi parliamo sia stata codificata per oltre il 90% da Dante agli inizi del Trecento. Uno splendido omaggio alla paternità linguistica dantesca dell’italiano si trova anche in un dialogo contenuto nel romanzo di Thomas Mann “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”, dove il portiere di un albergo interrogato da un avventore sulla lingua italiana afferma “Gli angeli in Cielo parlano italiano“. Dunque se uno dei massimi rappresentanti della letteratura mondiale colloca l’italiano in Paradiso e sulla bocca degli angeli, è grazie al “padre” Dante. Sulla condizione di Dante esule molto si è scritto, partendo dai riferimenti che il poeta stesso ne fa nei già citati De vulgari eloquentia e Convivio, ma soprattutto nella Commedia. Nel poema l’esilio è profetizzato, post eventum, nell’Inferno da Ciacco, Farinata degli Uberti e Brunetto Latini; nel Purgatorio le profezie continuano a partire dal canto VIII con quella di Corrado Malaspina, presso la cui corte Dante soggiornò nei primi anni del suo peregrinare, e nel canto XI, ambientato nel girone dei superbi, da Oderisi da Gubbio attraverso la vicenda di un suo compagno di penitenza, il senese Provenzan Salvani. Costui “si condusse a tremar per ogni vena” (Purg. XI, 138) umiliandosi a chiedere l’elemosina nella Piazza del Campo per riscattare un suo amico fatto prigioniero da Carlo d’Angiò. Con la vicenda di Salvani inizia quella identificazione figurale tra personaggio costretto a mendicare e Poeta stesso che troverà ancor più efficace riscontro nel canto VI del Paradiso dove l’imperatore Giustiniano, il cui eloquio occupa l’intero canto, racconta a Dante la vicenda di Romeo di Villanova, un tempo Ministro del Conte di Provenza Raimondo Berengario, che calunniato dalle invidie di qualche altro personaggio di corte, offeso e umiliato, non cede al suicidio come Pier della Vigna (Inferno, XIII) ma affronta la sofferenza dell’esilio e della povertà con dignità e coraggio, mendicando il pane a tozzo a tozzo: “indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe” (Par. VI, 139- 142). Ai giorni nostri, dove i flussi migratori ci pongono continue e importanti riflessioni e generano innumerevoli dibattiti, si è tentato di utilizzare Dante in funzione anti- migranti: a tal proposito si recuperi in rete un articolo apparso sul quotidiano Il Giornale nel Maggio 2015 a firma di Matteo Carnieletto dove si equipara l’inurbamento a Firenze dei mercanti del contado fiorentino mossi dall’aspettativa di maggiori guadagni alla presunta invasione degli odierni migranti. Sarebbe forse più opportuno sorvolare su tentativi come questo, (del resto chi vorrà leggere l’articolo ne trarrà le ovvie conclusioni) ma risulta almeno doveroso far notare che prendere di peso una terzina da un canto della Commedia, strapparla dal suo contesto medievale e attribuirle una valenza moderna a sostegno di una tesi di comodo, avulsa da un benché minimo tentativo di storicizzazione, è operazione culturalmente improponibile e indegna di un giornalismo serio. Così come sono spesso fallaci i tentativi di attualizzare, quasi a tutti i costi, il pensiero di Dante uomo: lo si è spesso fatto, ad esempio, in funzione anti- Islam citando la punizione che nella Commedia è riservata a Maometto. Dante era un uomo profondamente del suo tempo, estremamente radicato nel sistema culturale- filosofico dell’epoca, e volerlo portare di peso nella contemporaneità produce spesso risultati scarsi, quando non ridicoli. Certamente, Dante era, è e sarà moderno per alcuni suoi aspetti, anzitutto quello linguistico, come abbiamo sopra accennato, e per alcuni aspetti del suo pensiero, tra i quali il suo aprire le porte all’Umanesimo per il suo incessante interrogarsi su quanto stesse facendo come uomo e come poeta. Nel dibattito intorno al tema delle migrazioni può essere chiamato in causa per stimolarci ad una riflessione: occorre tenere a mente che l’identità di un individuo si realizza, prima che in ogni altro aspetto, nella lingua materna, così potentemente agganciata alla cultura e agli affetti, assai più che attraverso la parte del mondo in cui si poggiano i piedi. Mondo nel quale, come scrisse Paolo Rumiz in un suo reportage dai Balcani devastati dalla guerra e pubblicato su Repubblica, “i pesci non hanno bandiera e il mare è salato ovunque”. In una Italia nella quale da quattro anni consecutivamente le nascite si attestano sotto la cifra di 500 mila all’anno e ogni anno in diminuzione rispetto al precedente, nel tanto e talvolta vacuo parlare di integrazione, dovremmo iniziare a considerare che le immigrazioni sono davvero una risorsa, che non ci si può sottrarre al dovere di accogliere chi fugge da guerre e fame e che un sano tentativo di integrazione dovrebbe partire proprio dall’insegnamento dell’italiano ai nuovi arrivati.

Simone Salvi

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