Statua di Eirene

Mentre in gran parte dei Paesi di questo sventurato pianeta aumentano di anno in anno le spese militari, facciamo un balzo indietro di 2500 anni, con il pensiero e con lo sguardo, all’antica Grecia. Si è soliti affermare, a ragione, che la civiltà greca antica fu l’incubatrice della civiltà stessa. Letterati quali Omero, che pure il Sommo Dante Alighieri definisce “poeta sovrano”, scultori quali Fidia e Prassitele, pensatori quali Socrate, Platone, Aristotele, e molti altri personaggi nei loro diversi ambiti, hanno piantato i semi della civiltà. Semi che spesso hanno germinato dando frutti che esistono, o almeno resistono, ancora oggi. Tra le idee sviluppate in quella fucina del pensiero umano vi fu quella della corrispondenza tra pace e ricchezza, dunque tra pace e benessere della popolazione. La pace era un’idea tanto importante che i greci antichi le dedicarono una dea, di nome Eirene. Dalla traduzione dal greco antico all’italiano, deriva uno dei nomi femminili più belli e ricchi di significato ancora oggi diffuso, Irene, cioè pace. Nella mitologia classica Eirene era una delle Ore, figlia di Zeus e Temi e sorella di Eunomìa e Dike. Anche quest’ultime assunte a ruoli importanti, rispettivamente, quelli di dea dell’ordine e dea della giustizia. Insomma, una triade importante. A partire dal V secolo a.C., il “secolo d’oro” della Grecia antica e di Atene in particolare, numerose sono state le rappresentazioni di Eirene in scultura. Una delle più celebri e incantevoli è quella realizzata nel IV secolo dal grande scultore Cefisodoto Il Vecchio, capostipite di una famiglia di eccellenti scultori e probabilmente padre del più noto Prassitele. Come di molte statue greche di quel periodo ne è giunta a noi in ottime condizioni una copia romana, di autore ignoto, conservata oggi nella Gliptoteca di Monaco di Baviera. L’iconografia è quella più frequente per questo soggetto, con Eirene che porta in braccio Pluto, dio della ricchezza. La statua ebbe talmente successo da essere posta sull’Agorà di Atene e raffigurate su monete dell’epoca. In altre rappresentazioni di questo soggetto, la dea regge con le mani una cornucopia o un ramoscello d’olivo, simboli di prosperità e pace. Insomma, i nostri maestri di civiltà avevano intuito che la pace fosse condizione fondamentale per la prosperità, la ricchezza e il benessere dei popoli. Peccato che nella società moderna questo concetto sia tanto disatteso. Disatteso da noi che spendiamo cifre esorbitanti per una folle corsa agli armamenti, utile solo agli interessi dell’ industria bellica, togliendo risorse alla cultura e al suo mantenimento, lasciando così cadere a pezzi statue e significati di un mondo ormai sempre più lontano.

Simone Salvi

 

Puntata di Fratelli di Crozza del 17 Novembre 2017

Da quando è iniziata la nuova stagione di “Fratelli di Crozza ” su Nove ho spesso ripetuto che questa mi sembra l’edizione ad oggi più curata, con il conduttore in ottima forma, mirato nella scelta di parole, fatti affrontati e personaggi. Mi appassionano meno alcuni personaggi quali il Maestro di Yoga e e il web- nauta Napalm 51, mentre trovo azzeccatissime le imitazioni del Ministro Minniti, di Vittorio Feltri, e quelle ormai consolidate di Renzi, De Luca e Veltroni. Ma la puntata di ieri sera mi ha deluso. Mi sarei aspettato che il comico genovese aprisse il programma denunciando quanto sta accadendo in Libia, dove si battono gli esseri umani all’asta, magari attraverso una feroce satira del Ministro Minniti, corresponsabile di quanto là sta accadendo. Invece ha aperto trattando il tema che più di ogni altro sembra appassionare e rattristare gli italiani in questi ultimi giorni, l’eliminazione dell’Italia dai Mondiali di Calcio. Per tutta la puntata non c’è stato alcun riferimento alla questione libica, nemmeno quando ha imitato il Ministro dell’Interno. Caro Crozza, continuerò a stimarti e a seguirti, ma le priorità dell’Italia, dell’Europa e di questo pianeta, sono altre.

“Io non mi sento italiano”. E nemmeno europeo.

Chi continua ad applaudire alla cosiddetta “condotta Minniti” sulle ONG e più in generale agli accordi tra Italia e Libia per fermare i nostri fratelli migranti compie un atto di ipocrita cecità. Ieri l’ONU, rivolta all’Unione Europea, ha definito tali accordi “un patto disumano”. Ormai ciò che sta accadendo in mare, dove si assiste a scontri tra la sedicente Guardia Costiera libica e le navi delle ONG, e ciò che sta accadendo nei lager libici, è diffuso da tutti i mezzi di informazione esistenti. Immagini e video sono inconfutabilmente eloquenti. Chi continua ad applaudire è dunque un finto cieco, è un complice di chi ha stabilito questi criminosi accordi, degli ex scafisti che oggi indossano la divisa della Guardia Costiera libica, dei battitori d’asta di esseri umani.

Simone Salvi

http://www.corriere.it/video-articoli/2017/11/14/libia-dramma-migranti-venduti-all-asta-come-schiavi/83a90d36-c955-11e7-8a54-e86623f761be.shtml

Frasi oscene di Salvini e Meloni

Ad una prima lettura frasi così possono far sorridere. Anche a me ieri sera, davanti a tanta idiozia, leggendole è scappato un mezzo sorriso. Ma purtroppo sono affermazioni che da qualcuno sono prese sul serio e fanno ottenere consensi ai loro autori, visti gli ultimi dati proprio di ieri che danno la Lega Nord in crescita di almeno uno 0,5%. Sono affermazioni gravi che nascondono in sé un profondo razzismo ed una incitazione allo stesso. Del resto cosa possiamo aspettarci da un politico che ha affermato, in riferimento ai migranti, “andiamo a stanarli casa per casa”? Un’affermazione agghiacciante che risuona come invito alla pulizia etnica. Allora non possiamo far altro che ribadire ancora una volta che la battaglia contro questa deriva debba essere prima di tutto culturale. Senza “andare a stanare” nessuno, ma cercando di educare tutti. O almeno quanti più possibile.

Italia-Svezia 0-0, Salvini e Meloni_ _Fuori dai mondiali per colpa dei troppi stranieri nel nostro calcio_ – Il Fatto Quotidiano

 

Simone Salvi

 

Post del Dottor Pietro Bartolo

Con tutta la rabbia e l’amarezza che questi fatti lasciano, condividiamo sul Periscopio un post pubblicato su Facebook, poche ore fa, dal Dottor  Pietro Bartolo. E davanti a questi fatti, davanti a quell’accordo osceno fatto dal Governo Italiano con la Libia, noi, come il Dottor Bartolo, non ci sentiamo orgogliosi di essere italiani.

“Si continuano a contare i morti. Pochi giorni fa sono stati recuperati da un gommone 23 cadaveri. Ancora, 26 donne sono arrivate morte con una nave a Salerno, molte di loro adolescenti tra i 14 e i 26 anni. Poi, di nuovo, 5 morti tra cui un bambino. Donne e bambini vittime di una tragedia senza fine.
E poi, lo scontro in mare tra una motovedetta libica (dall’Italia donata alla Libia) e un’imbarcazione di SeaWatch, alla quale era stato dato il compito di recuperare dei migranti in pericolo su di un gommone. Secondo la ricostruzione della Ong, l’intervento libico ha complicato il salvataggio e, malgrado le numerose richieste della marina italiana di spegnere i motori e fermarsi al fine di collaborare al recupero, i libici hanno abbandonato il luogo del naufragio trascinandosi dietro alcune persone ancora aggrappate alla motovedetta e determinandone la morte. Alcuni migranti, inoltre, in tale circostanza, sono stati brutalmente picchiati dai libici con corde. Circa 50 di loro hanno perso la vita.
Se questi sono i risultati dell’accordo che l’Italia ha stipulato con la Libia, direi che non si può più affermare di essere orgogliosi di essere Italiani. Oltretutto, questo patto ha determinato una tanto declamata diminuzione degli arrivi, senza pensare, però, a cosa succede a tutte quelle persone che vengono trattenute con la forza dall’altra parte del Mediterraneo in “campi di concentramento” (fosse comuni?).
C’è chi, guardando quel ponte di mare che separa l’Italia dalle coste africane, vede persone che rischiano la vita nella speranza di un futuro migliore e dignitoso. E poi ci sono gli altri, che si sono abituati a considerare quel tratto di mare un “cimitero di senza nome”. Un crimine contro l’umanità di cui si sta rendendo complice anche l’Italia. Tragedie che si potrebbero evitare se solo i governi europei, al posto di ragionare su come bloccare le partenze facendo così permanere queste persone nell’inferno libico, si impegnassero veramente nel trovare vie legali e sicure per permettere loro di arrivare in Europa in tutta sicurezza.”

Dr. Pietro Bartolo

“La Verità” di Trilussa

“La Verità”

“La Verità che stava in fonno ar pozzo
Una vorta strillò: – Correte, gente,
Chè l’acqua m’è arivata ar gargarozzo! –
La folla corse subbito
Co’ le corde e le scale: ma un Pretozzo
Trovò ch’era un affare sconveniente.
– Prima de falla uscì – dice – bisogna
Che je mettemo quarche cosa addosso
Perchè senza camicia è ‘na vergogna!
Coprimola un po’ tutti: io, come prete,
Je posso dà’ er treppizzi, ar resto poi
Ce penserete voi…

 – M’assoccio volentieri a la proposta
– Disse un Ministro ch’approvò l’idea. –
Pe’ conto mio je cedo la livrea
Che Dio lo sa l’inchini che me costa;
Ma ormai solo la giacca
È l’abbito ch’attacca.-

 Bastò la mossa; ognuno,
Chi più chi meno, je buttò una cosa
Pe’ vedè’ de coprilla un po’ per uno;
E er pozzo in un baleno se riempì:
Da la camicia bianca d’una sposa
A la corvatta rossa d’un tribbuno,
Da un fracche aristocratico a un cheppì.

 Passata ‘na mezz’ora,
La Verità, che s’era già vestita,
S’arrampicò a la corda e sortì fôra:
Sortì fôra e cantò: – Fior de cicuta,
Ner modo che m’avete combinata
Purtroppo nun sarò riconosciuta!”

Show di Brunetta ad Otto e mezzo

A Pisa, su un muro nei pressi della Scuola Superiore Sant’Anna, almeno fino a poco tempo fa si poteva leggere una scritta che recitava più o meno così: “Berlusconi è una persona onesta ed io non sto scrivendo su questo muro”. Qualche sera fa, ospite di Lilli Gruber ad Otto e mezzo, Renato Brunetta rispondendo alla conduttrice che lo interpellava sulle ragioni del reiterato successo di Berlusconi ha così esordito: “E’ una persona seria e onesta”. Brunetta, saresti risultato più credibile se tu avessi aggiunto: “ed io non sto parlando a questa trasmissione”.

Ecco il link per rivedere la puntata: http://www.la7.it/otto-e-mezzo/rivedila7/chi-saranno-gli-anti-berlusconiani-07-11-2017-226371

Simone Salvi

 

Sciocchezzaio su Antigone di Eva Cantarella e Umberto Galimberti

Sottoponiamo ai lettori del nostro blog  un commento aspro e strameritato sulle infinite balordaggini espresse sulla nobile figura di Antigone nel 2013 e nel 2014  da due mostri sacri della carta stampata: Eva Cantarella, giurista, scrittrice, docente di Istituzioni di Diritto Romano e Diritto Greco all’Università di Milano e Umberto Galimberti, filosofo, professore ordinario di filosofia della Storia all’Università Ca Foscari di Venezia ed editorialista di Repubblica. Cominciamo da Eva Cantarella. Il 10 agosto 2014 alle pagine 48 e 49 di Repubblica compare una sua intervista a cura  di Antonio Gnoli che incomincia a sinistra in alto con una parola profetica in grassetto: Straparlando seguita da una breve presentazione dell’intervistata. Sotto appare il titolo: Eva Cantarella “Ho scelto tra diritto e miti greci ora so che Antigone aveva torto”. L’intervistatore propone : “C’è il caso di Antigone”. Risposta: “L’ho sempre vista con gli occhi del giurista”. Gnoli: “Difende i valori della famiglia”. Cantarella: “Vuole dare sepoltura al fratello contro i valori della Polis. Creonte, il re, si oppone, perché considera Polinice un nemico della patria. Ed emette un decreto di morte contro chiunque voglia violare la sua decisione”. Prima obiezione: “i valori della Polis non possono coincidere con il divieto di sepoltura di un cadavere, qualunque esso sia; per il mondo antico, dalla civiltà micenea fino al mondo classico greco-romano un simile divieto sarebbe stato bollato come una vera e propria bestemmia, volendo usare una definizione moderna, per gli stessi motivi che da sempre hanno guidato gli spiriti liberi e antifascisti  a considerare le leggi razziali di Mussolini come una vergognosa ignominia. Non dimentichiamo, a questo proposito, il pamphlet “L’obbedienza non è più una virtù” in cui Don Milani illustrava  il diritto alla disobbedienza nei confronti di leggi e ordini  che violino le fondamenta stesse dell’etica e del vivere civile. Il dovere di seppellire i cadaveri  è paragonabile a quello dei salvataggi in mare di vite umane in pericolo, che giuristi tedeschi, interpellati dal Bundestag in  seguito al sequestro della nave Ong Jugend Rettet, hanno definito “un dovere secolare dei popoli, consuetudinario e non scritto” antecedente e di rango superiore rispetto alle leggi nazionali che non possono proibire la libera e doverosa effettuazione dei salvataggi stessi (La Repubblica 5 agosto 2017). Scrive Corrado Augias su Repubblica del 2 luglio 2016 in un pezzo intitolato “Il mare di Antigone”: “Ho cercato di ricostruire la genesi del precetto che impone ai viventi la pietà verso i defunti e ai seguaci delle religioni, in primis la cristiana, di compiere la fondamentale opera di misericordia riassunta nel precetto: seppellire i morti”. E nell’ultimo capoverso Augias aggiunge: “Ma è nella tragedia di Sofocle dedicata ad Antigone che troviamo forse l’esempio supremo di una pietà che supera addirittura le leggi degli uomini per iscriversi in un ordine etico superiore”. Augias conclude che “Antigone disobbedisce all’ordine (di Creonte) e dà ugualmente sepoltura al fratello…ma la perorazione con la quale rivendica il suo gesto resta un ammonimento valido oggi, dopo venticinque secoli, come lo era allora”. Per far capire la sacralità del seppellimento dei morti nel mondo antico greco-romano Anna Ferrari  nel suo Dizionario di Mitologia, UTET 2006, a pag. 348 afferma che “già nei poemi omerici l’importanza della sepoltura è enfatizzata: seppellire i caduti è un sacro dovere… Sarà per assolvere a questo sacro dovere e per impedire che la salma del fratello Polinice resti insepolta che Antigone, nell’omonima tragedia di Sofocle, oserà sfidare gli ordini espliciti di Creonte, non esitando ad andare a sua volta incontro alla morte”. Nella sua intervista, a proposito della decisione di Creonte,  Gnoli così prosegue: “ Antigone sceglie di contrapporsi a quella decisione. Cantarella : “ E lo fa con un’ortodossia inusitata”. Gnoli: “Prende le parti di Creonte?” Cantarella: “ Nonostante tutto lo considero un buon governante.” Definire  “ortodossia inusitata” l’adempimento di un sacro dovere (Grecia del V sec. A.C.) da parte di Antigone nel dare sepoltura dignitosa al fratello Polinice, significa ignorare completamente un capitolo importantissimo dei doveri considerati imprescindibili nel mondo antico: un vero e proprio errore da matita blu in un tema di allievi del Liceo Classico. Quanto al definire Creonte “un buon governante” c’è da restare allibiti: un tiranno che impone un divieto disumano, quale è la proibizione di dare sepoltura dignitosa a un cadavere, quale esso sia, in palese contrasto con i valori supremi di ogni società umana da Neanderthal fino a oggi, sarebbe un buon governante? Ma allora  possiamo anche rivedere i nostri giudizi su Hitler, Stalin e Pol Pot. Quousque tandem Cantarella…Ma la ciliegina finale nella discutibile intervista degna di Novella 2000 o di Chi si incontra poco dopo. Gnoli: “ Non le piace proprio Antigone? ” Cantarella: “ Ha un carattere freddo, inflessibile, basta vedere come tratta la sorella! Dice cose strane, non accetta confronti con nessuno”, “Signora mia” aggiungerebbe la Signora Cecioni di Franca Valeri. Appare sconcertante che una studiosa del mondo greco-romano, universalmente osannata, nel parlare di Antigone  possa scadere a livello di pettegolezzo  di un settimanale femminile da salone di parrucchiere per signora.

A giudizi così sommari e ridicoli sul “caratteraccio”  di Antigone contrapponiamo gli splendidi versi con cui Ugo Foscolo esalta la sacralità del rito funebre, in parole povere, del seppellimento di un cadavere:

Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.”

U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 30-41

Mariano Puxeddu

A completamento dell’articolo “Sciocchezzaio su Antigone di Eva Cantarella e Umberto Galimberti” dell’8/11/2017, pubblichiamo la seconda parte con le osservazioni alle considerazioni di U. Galimberti

Riguardo al mito di Antigone molto discutibile appare anche l’interpretazione che ne dà Umberto Galimberti nell’articolo “la Legge della Famiglia e la legge di tutti”, supplemento 2 febbraio 2013 al giornale La Repubblica, forse fuorviato dai versi 661-662 della tragedia “Antigone” di Sofocle che dicono: “Chi è corretto nei rapporti famigliari, sarà giusto anche verso la città”. Secondo Galimberti Sofocle “presenta Creonte come tiranno malvagio e Antigone come eroina.” Galimberti prosegue dicendo che “Hegel… non concorda con Sofocle, perché a suo parere i diritti del sangue e della parentela, non possono aver la meglio sulle leggi della città. La requisitoria di Galimberti prosegue così: “volendo riportare ai giorni nostri e in particolare alla situazione italiana il tema dell’Antigone, non vinceremo mai la mafia se la legge della parentela e del sangue hanno la meglio sulla legge della città, non arriveremo mai a migliorare la città se la legge familistica della raccomandazione, delle conoscenze, dello scambio di favori privilegia figli e parenti ai meritevoli. E non vale neppure invocare le leggi non scritte e immutabili degli dei, come fa Antigone, perché non può esserci interferenza religiosa nella formulazione e nell’ossequio alle leggi della città…Sofocle, mettendo in scena il conflitto tra la legge del sangue, della parentela, degli dei e la legge della città, offre nel V secolo un grande tema su cui riflettere. La prima obiezione a simili ragionamenti è questa: non si può in alcun modo strappare dal contesto storico in cui è stata scritta la tragedia da Sofocle e scaraventarla arbitrariamente in un contesto moderno. Seconda obiezione: come detto prima, riguardo alle opinioni espresse da Eva Cantarella esiste da sempre il diritto consuetudinario o “Ius cogens”, ossia l’insieme di norme che, per essere poste a tutela di beni o valori ritenuti fondamentali dalla comunità internazionale nel suo insieme, sono riconosciute come imperative, o inderogabili e preordinate e di rango superiore rispetto alle

leggi degli stati: tra queste norme, sia nel mondo classico greco-romano, come già detto, sia, aggiungo ora, nella tradizione giudaico-cristiana il diritto alla sepoltura era sacro e inviolabile. A questo sacro principio obbedisce Antigone che non può essere in alcun modo accusata di un anacronistico “familismo amorale” (non siamo nella Basilicata di Banfield, 1958). Il dovere di disobbedire a leggi ingiuste contrarie al diritto consuetudinario, preordinato a qualunque legge umana, ha ispirato il comportamento di Antigone che seppellisce il fratello Polinice, violando il divieto imposto per legge da Creonte. Riassumendo quanto detto in precedenza, sia Eva Cantarella che Umberto Galimberti accusano Antigone di voler “dare sepoltura al fratello contro i valori della Polis” (Eva Cantarella) o addirittura (Umberto Galimberti) di “interferenza religiosa” avendo privilegiato “la legge del sangue, della parentela, degli dei” rispetto all’osservanza della “legge della città” Ma la convinzione che sia Eva Cantarella che Umberto Galimberti diano una interpretazione errata del comportamento di Antigone emerge come un dono dagli stupendi versi 449-457 della tragedia di Sofocle: in essi appare evidente come Antigone, lungi dall’essere pervasa da una mistica religiosa del tutto estranea al politeismo greco del V secolo A.C. ( la “interferenza religiosa”di Galimberti), abbia ben chiaro il concetto di “Ius cogens”. Leggiamo attentamente la risposta di Antigone al tiranno liberticida (Antigone versi 449-457; per chi non conosce l’alfabeto greco utilizzo quello latino, comune a molte lingue moderne): “Kreonte: kài déta (e nondimeno) etòlmas (osavi) toùs d’uperbàinen nòmous (queste violare norme)? Antigone: ou gàr tì moi (non infatti mica a me) Zéus (Giove) én (era) o (colui che) keruxas (intimava) tàde (quegli ordini),/oud’e (né la) xùnoikos (coabitante) tòn kàto (con i disotto) theòn (dei) Dìke (Giustizia)/ toioùsde en anthropòisin (siffatte negli uomini) òrisen nòmous (fissò norme);/ oude sthènein (né fossero forti) tosoùton (in tale misura) oòmen (credevo) tà sa/ kerùgmata (i tuoi ordini), òst’àgrapta kasphalé (kài asphalé) (al punto da, non scritte e immutabili) theòn (degli dei) / nòmima (leggi) dùnasthai (potere) thnetòn ònth’uperdraméin (tu, essendo mortale, violare);/ou gàr ti (non infatti per niente) nùn ge kachtés (kài achtés) (ora certo e da ieri), all’aéi pote (ma da sempre)/ zé (esistono) tàuta (queste) (sottinteso:leggi), koudéis (kai oudéis) (e nessuno) òiden (sa) ex òtou (perché) ephàne (comparvero). Ossia: “Creonte: E nondimeno osavi trasgredire queste leggi. Antigone: Infatti non era mica Zeus che mi intimava quegli ordini, né la Giustizia, che abita con gli dei sotterra, fissò siffatte leggi fra gli uomini; né io credevo che i tuoi ordini fossero forti a tal punto, da potere tu, che sei mortale, violare le leggi non scritte e immutabili degli dei; poiché esse non da oggi, certo, e da ieri, ma da sempre esistono e nessuno sa perché comparvero.” La nobile figura di Antigone e la sua sacrosanta violazione della legge disumana imposta da Creonte vengono illustrate dai versi eloquenti che Sofocle mette in bocca a Emone figlio di Creonte e innamorato di Antigone di cui, in un estremo atto di amore, seguirà la tragica sorte: Antigone versi 692-700: “Emòi d’akoùein (a me udire invece) ésth’upò skòtou (è possibile nell’ombra) tàde (tali discorsi),/ tén pàida tàuten (questa fanciulla) òi’odùretai pòlis (cioè compiange la città),/ pasòn gunaikòn (di tutte donne) os anaxiotàte (come la più immeritevole sottinteso: di soffrire)/ kakista (in pessimo stato, nella più miserevole condizione) ap’érgon eukleestàton (per azioni gloriosissime) phthìnei (perisce, muore);/ étis (lei che) tòn autés autàdelphon (il di lei proprio fratello) en phonàis (nelle stragi)/ peptòta (caduto) àthapton (insepolto) meth’up’omestòn kunòn (né da crudivori cani)/ èiase olésthai (permise venisse distrutto,divorato) mèth’up’oionòn (né da degli uccelli rapaci) tinòs (alcuno);/ouk (non) éde ( sottinteso:sarebbe invece) chrusés (un aureo)

axìa (degno) timés (onore) làchein (di ricevere)? Toiàde (siffatta) eremné (oscura) sìg’éperchetai (sommessamente si diffonde) phatis (diceria). Ossia: “A me invece è possibile udire siffatti discorsi nell’ombra, come ad esempio che la città compiange questa fanciulla e che essa, la più immeritevole di soffrire di tutte le donne, muore miseramente per gloriosissime azioni, lei che non permise che il fratello, caduto nelle stragi, insepolto, venisse divorato da cani mangiatori di carne cruda e da uccelli rapaci. Non sarebbe essa invece degna di ricevere un aureo onore? Siffatta oscura diceria si diffonde sommessamente.” Come si vede la pietosa sepoltura di un cadavere era doverosa nella Grecia classica proprio per evitare lo strazio del corpo umano da parte di cani e uccelli rapaci. La remotissima tradizione del pietoso seppellimento dei cadaveri già evidentissima negli ominidi (Homo neanderthalensis, Homo sapiens) continua nel mondo classico greco-romano e si perpetua nella tradizione giudaico-cristiana (la Bibbia, Vangelo di Matteo 25, 31-46). La Chiesa Cattolica aggiunge alle sei opere di misericordia corporali illustrate nel suddetto passo del Vangelo di Matteo anche il seppellimento dei cadaveri come settima opera di misericordia corporale immortalata nel polittico del Maestro di Alkmaar (The Netherlands) datato 1504. Anche in questo caso, nel criticare le considerazioni di Umberto Galimberti, cito con maggiori dettagli, la risposta di Don Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11-2-1965 e la lettera di Don Milani ai giudici che lo processano datata 18 ottobre 1965 riunite nel libro “L’obbedienza non è più una virtù” della Libera Editrice Fiorentina (1965) in cui viene affermato l’obbligo di disobbedire agli ordini ingiusti e di non rispettare le leggi che violino i diritti fondamentali dell’essere umano, assumendosi la responsabilità di una simile scelta e accettandone le conseguenze. Una citazione finale in merito al dovere eterno di seppellire i morti la riservo al film “Biruma no Tategoto” (“L’Arpa Birmana” in Italia) capolavoro del regista Kon Ichikawa (1956) così illustrato da Fernaldo Di Giammatteo nel Dizionario del cinema: “A guerra conclusa (luglio 1945), un gruppo di soldati giapponesi ancora prigionieri in Birmania incontra nella foresta uno strano bonzo, con un’arpa e un pappagallo sulle spalle. È un loro compagno considerato disperso, Mizushima, ancora sconvolto, chiuso in un mutismo impenetrabile. Il suo comandante, anche dopo la capitolazione del Giappone rifiutò di arrendersi e condusse i propri uomini al macello. Mizushima fu l’unico sopravvissuto. Ferito, dopo aver vagato a lungo, fu raccolto e curato da un bonzo pietoso. Guarito, col proposito di raggiungere i suoi, s’imbatté nel cumulo di cadaveri ammassati nella pianura. Ora il suo compito è quello di seppellire quei morti, dedicando la propria vita di monaco ad onorare i caduti (anche quelli nemici). Mentre i compagni ritornano in Giappone, Mizushima, sordo ai loro richiami, resta in Birmania a continuare la sua missione.” Invia loro questa lettera: «Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano. Ho visto l’erba bruciata, i campi riarsi… perché tanta distruzione caduta sul mondo? E la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà. Quanti dovrebbero avere questa pietà! Allora non importerebbero la guerra, la sofferenza, la distruzione, la paura, se solo potessero da queste nascere alcune lacrime di carità umana. Vorrei continuare in questa mia missione, continuare nel tempo fino alla fine.» (Wikipedia). Per concludere, come si vede, Antigone è in buona compagnia visto che in un recente capolavoro cinematografico il seppellimento di un morto è tuttora considerato come un sacro dovere e non come una pratica di familismo amorale.

Mariano Puxeddu

Da Antigone all’angelo con la pala

Chamseddine Margouz è un ex-pescatore che vive a Zarzis, nella Tunisia meridionale a poca distanza dal confine con la Libia, collabora con la Mezzaluna Rossa ed è il custode del cimitero dei migranti senza nome. Un cimitero costruito su un terreno strappato al deserto e ad una discarica, posto a poca distanza da ammassi di rifiuti. Le sepolture sono cumuli di sabbia e quelle più recenti si riconoscono perché ancora prive della sterpaglia che andrà a ricoprirle. Non ci sono lapidi e se anche una semplice lapide vi fosse non sapremmo che nome scriverci. Zarzis si è sviluppata come città durante il periodo coloniale francese in Tunisia. Prima di allora non esisteva una vera città ma solo un agglomerato di quartieri, ognuno dei quali spesso dotato di un cimitero di quartiere controllato dalle famiglie locali. I francesi riunirono i quartieri in una città e costruirono cimiteri per le diverse confessioni religiose che vi si trovano mentre gli altri cimiteri sono rimasti di fatto sotto il controllo delle stesse famiglie. Sulla costa di Zarzis, così come sulle coste di molti paesi lambiti dal Mar Mediterraneo, si infrangono spesso speranze e vite di esseri umani. Da quando è iniziato il fenomeno delle migrazioni dai paesi dell’Africa Centrale e il traffico di esseri umani, sulle coste della cittadina tunisina e nelle acque prospicienti hanno iniziato ad arrivare sempre più corpi senza vita. Da allora, come ancora oggi, sono spesso i pescatori a recuperare quei corpi e tra quei pescatori vi era Chamseddine. Oggi lui non fa più il pescatore ma è volontario della Mezzaluna Rossa, a lui portano i cadaveri di quei nostri fratelli e lui si occupa di dar loro dignitosa sepoltura. Dal 2011, anno in cui si è assistito ad un aumento delle partenze e purtroppo dei naufragi, le famiglie locali hanno iniziato a protestare della presenza di ignoti migranti accanto alle sepolture dei loro cari. La rivolta della popolazione locale ha raggiunto il culmine nel Settembre 2011 quando i corpi di cinquantaquattro siriani vennero lasciati dal mare sulle spiagge della città. Chamseddine aiutato dai suoi amici pescatori e dai membri della Mezzaluna Rossa ha cercato un luogo in cui seppellire quei morti in cerca di speranza che arrivavano sulle coste della città, ma l’unico sito disponibile che ha trovato è quel pezzo di deserto posto a pochi passi da una discarica. La forma di quelle tombe di sabbia cambia a seconda della direzione dei venti che spirano a Zarzis. I venti provenienti dal deserto portano sabbia e innalzano i cumuli. Ma lo spazio per le sepolture si sta esaurendo. Per questo il Comitato Regionale della Mezzaluna Rossa di Medenine ha lanciato una petizione on- line per raccogliere fondi, con l’obiettivo di raggiungere i 30 mila euro necessari all’acquisto di un terreno di 2500 metri quadrati, posto quindici chilometri a sud di Zarzis, da adibire a cimitero e luogo della memoria.

Questo il link per effettuare la donazione: http://www.cofundy.com/index.php?r=projet/detail&id=490

 

Chamseddine porta avanti un precetto forse antico quanto l’uomo e suggellato venticinque secoli fa là dove si dice, a ragione, che sia nata la civiltà, attraverso il mito di Antigone. L’eroina Antigone che seppellisce il cadavere del fratello Polinice, opponendosi all’autorità, il Re di Tebe Creonte, che voleva negargli la sepoltura perché aveva combattuto contro il suo Regno. Per il gesto compiuto, Antigone rappresenta una delle più alte espressioni di quella pietas che sta, o almeno dovrebbe stare, alla base dell’essere cristiani e non solo. Oggi, a Zarzis, Chamseddine da dodici anni perpetua quel gesto assumendo il ruolo di eroe contemporaneo, proprio come per lo stesso gesto è considerata sempiterna eroina Antigone. Ma come scrisse Bertold Brecht, “Beato è il popolo che non ha bisogno di eroi”. Per questo a noi non resta che augurare al nostro eroe a Zarzis di poter tornare a fare il pescatore, o qualsiasi altro lavoro, che non sia quello di strappare terra al deserto per seppellire identità naufragate. Auguriamolo a lui e a tutti noi, perché quando ciò accadrà significherà che il mare avrà smesso di restituirci corpi senza vita. E che le speranze di quei nostri fratelli si saranno concretizzate nel modo più dignitoso.

Al cinema il dovere della sepoltura dei morti è reso poeticamente nel bellissimo film di Kon Ichikawa “L’arpa birmana”, datato 1956. Protagonista del film è Mizushima, un soldato giapponese che dopo aver perso i suoi commilitoni decide, sotto la guida di un monaco buddista, di farsi bonzo per dedicarsi alla sepoltura dei compagni morti. La scena più toccante del film è proprio quella in cui Mizushima, con lo stupendo sfondo musicale del Corale della Passione Secondo Matteo di Bach, rivolge il suo sguardo sconfortato ai compagni morti accanto a lui. Da lì maturerà la sua decisione. Il film fu presentato al Festival del Cinema di Venezia, purtroppo nell’anno in cui Luchino Visconti decise di non assegnare il Leone d’Oro. Peccato. Un film educativo, celebrazione di due valori tanto cari ai curatori di questo blog: l’amicizia e la musica. Un film senza tempo, nel quale Mizushima è Antigone contemporaneo. Proprio come Chamseddine.

 

Simone Salvi

I pescatori tunisini che danno sepoltura ai migranti senza nome