Che Dante sia il padre della lingua italiana è ormai sentenza passata in giudicato. Sullo scorcio degli anni Novanta del secolo scorso il compianto Tullio De Mauro, avvalendosi dell’ausilio dello strumento informatico, ha quantificato tale paternità linguistica dimostrando che sul finire del Trecento, dunque più di mezzo secolo dopo la composizione e l’immediato successo della Commedia, il vocabolario fondamentale della lingua italiana, ovvero quell’insieme costituito da circa duemila parole che ci permettono di produrre il 90% dei nostri discorsi, era già formato per circa il 92%. A questo si aggiunge un altro dato notevole che prova il peso di Dante e della sua opera più nota nella formazione del lessico base dell’italiano: prima della stesura della Commedia, dunque a fine Dugento, lo stesso vocabolario era costituito “solo” per un sessanta per cento. Mette tuttavia conto notare che sarebbe impressionistico pensare che la lingua italiana sia nata già armata come Minerva dalla testa di Giove con Dante; piuttosto conviene ricordare che il Poeta, trovandosi a lavorare al “poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par., XXV, 1-2) si trovò di fronte alla possibilità di attingere a numerosi varianti lessicali, morfologiche e sintattiche tra le quali scegliere, per esempio nelle declinazioni verbali: nella Commedia troviamo infatti “vidi”, “ o mente che scrivesti ciò ch’io vidi”(Inf., II 8 ma anche “viddi” (Inf., VII 20), entrambi in chiusura di verso e dunque in posizione garantita dal punto di vista dell’autenticità; ma mentre la prima parola è quella che utilizziamo ancora oggi per esprimere il passato remoto del verbo “vedere”, l’uso di “viddi” è ormai caduto. Dunque tra la lingua della Commedia e la lingua italiana di uso corrente vi sono elementi sia di continuità sia di discontinuità. Come primo esempio di continuità basterà prendere il celebre verso di apertura del poema: “Nel mezzo del cammin di nostra vita”; analizzando il verso approfonditamente potrebbe risultare interessante soffermarci su due aspetti, linguistico uno, culturale l’altro. Dal punto di vista linguistico possiamo osservare che oggi non diremmo “di” nostra vita ma “della” nostra vita; il dato culturale consiste invece nel fatto che oggi un uomo di trentacinque anni (sappiamo che Dante ha compiuto il suo viaggio oltremondano all’età di trentacinque anni) non verrebbe considerato di mezza età bensì ancora un ragazzo. Ma nel complesso risulta evidente che tutte le parole che costituiscono il verso sono di uso comune ancora oggi. Un’altra celebre apertura di canto, quella di Paradiso XXIII ci offre la stessa considerazione: “Come l’augello, intra l’amate fronde,/ posato al nido de’ suoi dolci nati/la notte che le cose ci nasconde”, (1-3) dove il verso 3 è interamente costruito con parole lessicali e grammaticali del tutto ancora in uso. Senza soffermarmi in una ulteriore esemplificazione minuta degli elementi di continuità, che costituiscono la larga parte del lascito lessicale dantesco e su uno dei quali tornerò a conclusione di questo scritto, vorrei proporre alcuni elementi di discontinuità. Gli aspetti linguistici della Commedia che possono renderla distante al lettore contemporaneo sono soprattutto di tipo lessicale. In linguistica si definiscono “arcaismi” parole, forme o costrutti che sono estranei all’uso di una data epoca ma che hanno trovato dimora in età più antiche. Nella Commedia incontriamo numerose forme che oggi risultano arcaismi, la cui origine è il più delle volte da ricercarsi nella trafila etimologica delle parole come nel caso di “dannaggio”, evidente francesismo come tutte le parole uscenti in –aggio, di largo uso all’epoca di Dante, che abbiamo da tempo sostituito con “danno”. Altri arcaismi sono rappresentati da forme verbali che iniziavamo a decadere già agli inizi del Trecento, i cui esempi più notevoli riguardano il presente e l’imperfetto dell’indicativo. Nel fiorentino più antico la seconda persona dell’indicativo presente usciva in –e, come leggiamo in un celebre discorso rivolto da Virgilio a Minosse: “Perché pur gride?” (Inf., V, 21); l’indicativo imperfetto della prima persona usciva invece in –a, secondo l’etimo latino (ad es. amabam > io amava); si veda l’esempio di Inf., XXVI 43: “io stava sovra ‘l ponte a veder surto”. Restando in ambito lessicale, il lettore che si avvicini alla lettura della Commedia potrà rimanere sorpreso nello scoprire che di alcune parole usate da Dante non conosciamo il significato, o comunque risulta dubbia la loro interpretazione. Il caso più noto è quello di “ramogna”, che troviamo subito dopo la preghiera dei superbi nel canto XI del Purgatorio: “Così a sé e noi buona ramogna/ quell’ombre orando” (25- 26), per descrivere i purganti che camminano pregando. Senza soffermarci sulle diverse interpretazioni semantiche fornite dai commentatori e sulle possibili ricostruzioni etimologiche della parola, basterà qui notare che le due ipotesi semantiche più probabili oscillano tra “augurio” e “purificazione”. Il mistero incardinato su questa parola è reso ancor più fitto dal fatto che si tratti di un hapax assoluto, ovvero di un termine che compare una sola volta, non solo nella Commedia, ma in tutta la letteratura italiana di cui disponiamo. Ma probabilmente il dato linguistico che può maggiormente suscitare curiosità nel lettore di Dante è il riscontro di parole che sono sì ancora in uso nell’italiano contemporaneo ma con significato diverso. Ne descrivo qui quattro, particolarmente significative perché si tratta parole di largo uso e appartenenti al lessico fondamentale dell’italiano. Due di queste le incontriamo nel primo canto della Commedia, che fa da prologo non solo all’Inferno ma a tutto il poema: “parenti” e “noia”. “Non omo, omo già fui,/ e li parenti miei furon lombardi,/ mantoani per patria ambedui” (Inf., I 67-69), dice Virgilio presentandosi a Dante sperduto nella selva, in riferimento ai propri genitori e secondo l’etimologia latina del termine (“parens”genitore). Noi oggi, al posto di Virgilio, non diremmo parenti ma appunto genitori, riservando la parola parenti per indicare un grado di familiarità più lontano rispetto a quello genitoriale. Appena dopo la propria presentazione Virgilio chiede a Dante “Ma tu perché ritorni a tanta noia?”(I, 76). Noia nell’italiano antico significava pena, tormento, con una valenza semantica ben distante da quella attuale, che esprime invece quella sensazione a tutti ben nota generata dalla mancanza di qualcosa che ci tenga impegnati. Si noti tra l’altro che nell’Inferno dantesco tutto si fa, meno che annoiarsi: si piange, ci si dispera, si sconta la propria pena senza soluzione di continuità (pensiamo solo alla “bufera infernal che mai non resta” che mena gli spiriti dei lussuriosi sbattendoli qua e là nel secondo cerchio infernale, o ai sodomiti che camminano senza potersi mai fermare sotto una pioggia di fuoco, in uno dei canti più commoventi dell’intero poema, il quindicesimo), e dunque non vi è davvero tempo per annoiarsi. Con frequenza notevole nella Commedia e con significati diversi ricorre il verbo “convenire”, parola anch’essa di largo uso nei testi che noi oggi produciamo nell’accezione di “essere opportuno, utile” e con lo stesso valore la troviamo nel poema dantesco. Ma il termine lo troviamo, in tutte e tre le cantiche, con significati talvolta diversi: tra questi quello di “essere necessario”, “essere giocoforza”, esprimendo la condizione stessa di necessità. In quest’ultimo senso la troviamo, per esempio, all’inizio di Inferno XIX, il canto in cui si descrivono le vicende e la pena dei simoniaci: “or conviene che per voi suoni la tromba” recita il verso 5, che pur con qualche diversità di interpretazione tra i commentatori sulle quali non è qui il caso di soffermarsi, possiamo così parafrasare: ora è necessario che per voi suoni la tromba del Giudizio Universale dato che ci troviamo all’Inferno. L’ultimo termine su cui mi soffermo è ragazzo, altra parola di frequente utilizzo, ma la cui mobilità del percorso etimologico è degno di essere, seppur sommariamente, ripercorso. Nella Commedia la troviamo in una sola occorrenza in Inferno XXIX: “e non vidi già mai menare stregghia/ a ragazzo aspettato dal segnorso”, ai vv. 76-77 per descrivere il violento grattarsi dei falsari di metalli, la cui pena consiste nell’essere affetti da una scabbia purulenta e pruriginosa in una perfetta applicazione del principio del contrappasso (come loro in vita alterarono la materia, così sono condannati ad una eterna alterazione del proprio corpo). Ragazzo indica in questo passo il “garzone”, il “mozzo di stalla”, secondo un’accezione semantica che seppur coesistente a quella di “giovane”, il cui valore è attestato fin dal Seicento, si è conservata fino ai giorni nostri; spesso, soprattutto nel parlato, con “ragazzo” si indicano ancora oggi il giovane di bottega o l’inserviente. Avviandomi verso la conclusione, ritorno sugli elementi di continuità tra la lingua che noi oggi parliamo e quella della Commedia per richiamare quello che costituisce uno dei portati più noti di Dante nella contemporaneità, ossia le molte espressioni dantesche che sono passate in proverbio. Pensiamo a inserti come “mi fa tremar le vene e i polsi (Inf., I 90) riferendosi a qualcosa che ci spaventa, o a “non ragioniam di lor, ma guarda e passa” (Inf., III 51), quest’ultima spesso indebitamente alterata in “non ti curar di lor”. Ma la più utilizzata tra queste, soprattutto nel parlato, è molto probabilmente “dolenti note” (Inf., V 25), forse proprio perché collocata nel canto più largamente noto della Commedia e che è tale perché tocca le corde del sentimento amoroso. Nel canto compare pronunciata da Dante protagonista, appena arrivato nel cerchio dei lussuriosi, in riferimento alle voci di dolore dei dannati. L’uso più comune di questa espressione ad oggi è quello di premessa quando si accinge a riportare brutte notizie, o come esclamazione al ristorante al momento di chiedere il conto: veniamo alle dolenti note. A conclusione, restando su “dolenti note”, converrà notare che i diversi suoni che scandiscono il viaggio nei tre regni oltremondani, dunque le grida dei peccatori infernali, i canti liturgici intonati dai purganti e la “dolce sinfonia di paradiso”, che pervade l’ultima cantica, sono ulteriore testimonianza che nella architettura del poema dantesco davvero nulla è lasciato al caso.
Simone Salvi