Tra gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno del 1265 si colloca la nascita di Dante. Il giorno esatto non lo sappiamo ma dalla Commedia ricaviamo con certezza che il poeta fosse nato sotto il segno dei Gemelli:
“O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,”
Par., XXII 112-114
“A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.”
ivi 121-123
e alla costellazione allude ancora nella memorabile e splendida chiusa di canto:
“L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.”
ivi 151-154
Cosa vuole dirci Dante nelle terzine che abbiamo appena riportato? Per rispondere dobbiamo collocare il canto nella topografia del Paradiso. Nel canto XXII, dopo l’incontro con San Benedetto che si conclude con una reprimenda verso i benedettini corrotti, Dante e Beatrice si apprestano a lasciare il cielo di Saturno e a salire nell’ottavo cielo, quello delle Stelle Fisse. Proprio mentre il passaggio sta per avvenire, Dante si trova al cospetto della costellazione del Gemelli e ci dice di essere nato nel suo segno, come leggiamo nella prima delle terzine sopra riportate. Dobbiamo ricordare che nell’astrologia medievale questa costellazione era associata a una particolare predisposizione alle doti intellettuali, allo studio e alla creatività. Dante si dichiara dunque debitore verso i Gemelli e pochi versi più avanti, come leggiamo nella seconda terzina, ne invoca l’aiuto nella composizione del poema. Fino a questo punto il nome della costellazione non è stato fatto, ma la si è indicata attraverso una perifrasi “’l segno che segue il Tauro (ovvero la costellazione che segue il Toro, ivi 110-111). Solo in chiusura di canto, nel terzultimo verso dello stesso (si legga l’ultima terzina qui riportata), essa viene menzionata. A Dante e Beatrice, nell’ascesa all’ottavo cielo appare la Terra, indicata ancora una volta tramite la celebre perifrasi “L’aiuola che ci fa tanto feroci”, che certamente non necessita di parafrasi e che possiamo considerare sempre attuale.
L’11 giugno, giorno in cui questo articolo viene scritto, è una data importante, per la vita di Dante e per la storia politica e militare del Medioevo. Proprio in questa data, nel 1289, in una piana nei pressi di Poppi, in Casentino, si combatté la battaglia di Campaldino, alla quale Dante prese parte come cavaliere feditore, ossia impegnato a cavallo nelle prime linee. È appena il caso di richiamare l’importanza della battaglia e del suo esito nell’assetto della Toscana di fine Duecento, partendo dal ricordare che questo scontro segue, e conclude, una serie di battaglie svolte negli anni appena precedenti tra le parti guelfe e quelle ghibelline e che avrebbero segnato un nuovo assetto politico dell’intera penisola. La battaglia di Benevento (1266), nella quale i ghibellini vengono sconfitti e il loro rappresentante imperiale, Manfredi di Svevia, rimase ucciso; la battaglia di Tagliacozzo (1268), che vede ancora i ghibellini sconfitti e l’ultimo rappresentante della casata sveva, Corradino, decapitato appena sedicenne pochi giorni dopo a Napoli. Infine la battaglia di Campaldino, che rappresentò la sconfitta definitiva per la parte ghibellina, qui rappresentata dalla città di Arezzo, e l’affermarsi del dominio di Firenze sulla Toscana. I fatti di Campaldino li potete ascoltare nella lezione del professor Alessandro Barbero che trovate di seguito, ma, restando ancora su Dante, è opportuno ricordare che le tre battaglie richiamate vengono tutte ricordate nella Commedia. In particolare, alla figura e alla vicenda di Manfredi è dedicata un’ampia parte di Purgatorio III, mentre Campaldino è ricordata in uno degli episodi più memorabili dell’intera Commedia, occupando larga parte di Purgatorio V. Nella seconda parte del canto Dante racconta gli ultimi istanti di vita e la morte di Bonconte, uomo d’arme ghibellino e dunque avversario di Dante, che prese parte alla battaglia, vi rimase ucciso e il suo corpo andò disperso.
Concludiamo riportando la parte del canto in cui si racconta la vicenda di Bonconte, della sua fuga dal campo di battaglia, del temporale che lo travolse e della sua anima contesa tra un diavolo e un angelo.
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte”.
E io a lui: “Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?”.
“Oh!”, rispuos’elli, “a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”.
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse”.
Purgatorio V 88-129
Simone Salvi