In questa celebre foto che ritrae Fabrizio De Andrè, scattata da Guido Harari, tra gli oggetti che figurano sul letto del cantautore genovese vi è un catalogo di opere di Alessandro Magnasco (1667-1749). Il pittore, anch’ egli genovese di nascita, è stato artista eclettico e brillante, specializzato in scene di genere spesso ambientate ai cosiddetti “margini” della società, nelle quali l’artista, con ironia sottile in punta di pennello, beffeggia l’aristocrazia del suo tempo. Il dipinto qua sotto, “Trattenimento in un giardino di Albaro”, dipinto intorno al 1740 e oggi conservato al Museo di Palazzo Bianco a Genova, è la sua opera più celebre. Il muro sbreccato e il giovane povero che sta per scavalcarlo sono chiari simboli, rispettivamente, della decadenza dell’aristocrazia di quel tempo e della volontà dell’artista di criticarne i costumi. Non è dunque un caso che tra i pittori preferiti di Fabrizio De André vi fosse Alessandro Magnasco. Ad unire i due artisti era proprio la vicinanza ai cosiddetti “ultimi”, cioè i poveri, gli emarginati, gli zingari, le prostitute. Le canzoni di De André raccontano spesso dei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” (La Città Vecchia, 1965) nei quali vivono, o più spesso sopravvivono, queste persone. Basti pensare alla struggente “Khorakhanè”, dedicata all’omonima etnia rom e al loro eterno peregrinare, inserita nell’album “Anime salve”(1996), titolo questo che si riferisce a quelle anime “ultime” ai quali il cantautore si sentiva vicino. Coloro che oggi ascoltano De André e votano Salvini, che vorrebbero respingere il migrante e cacciare il Rom, dovrebbero domandarsi se si sentono sicuri di aver capito parole e lezione del grande cantautore.
Simone Salvi