Un’apertura di canto tra le più memorabili di tutto il poema, affidata a una similitudine che si sviluppa per ben quattro terzine. Beatrice, con lo sguardo rivolto verso l’alto nella trepidante attesa della visione del trionfo di Cristo e delle schiere dei beati, è figurata attraverso la dolce immagine di un uccello, che al nido aspetta i primi lucori dell’alba per poter rivedere i suoi piccoli e uscire per procurare loro il cibo. Sono versi trasparenti che non necessitano di parafrasi. Vale però notare un aspetto linguistico che ancora una volta conferma il peso di Dante nella creazione dell’italiano moderno: almeno i primi nove versi sono in un italiano che sia sul piano sintattico sia su quello lessicale è assai vicino a quello attuale. Basti leggere il terzo verso, che, linguisticamente, moderno lo è pienamente, perché anche noi oggi diremmo: “la notte che le cose ci nasconde”. Tratti tipici dell’italiano antico sono riscontrabili, in particolare a livello lessicale, già nel primo verso nel provenzalismo augello e nel latino schietto intra. Proseguendo, al verso quattro nel sicilianismo disiati (con dieresi su –i per ragioni di metrica) – peraltro destinato attraverso la sua radice “disio” a una certa longevità letteraria-, ai versi cinque e sei, rispettivamente nel pasca (pascere), in luogo del moderno “nutrire”, e ancora nel latino labor. Ma leggiamo questi splendidi versi, magari ad alta voce, e senza indugiare nelle note.
“Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;
così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:”
Dante, Commedia, Paradiso XXIII 1-12
Simone Salvi