Proemio. Il canto XXX si distacca, nell’oggetto e nella forma poetica, da tutto ciò che lo precede. Quello che prima era visibile sparisce, al suo inizio, davanti agli occhi, e non resta più nulla: il poeta è posto nella condizione di nulla vedere. Singolare condizione, in questo racconto che è una trama continua di cose viste. Ma tale vuoto di realtà visibili segna il passaggio alla nuova dimensione in cui sta entrando il poema: l’ingresso nell’Empireo, che è il tema del canto, porta con sé l’uscita dallo spazio, e quindi dal tempo (vv. 38-9). Il cielo umano si allontana vertiginosamente (Forse semilia miglia di lontano / ci ferve l’ora sesta…) e ci si trova in un altro cielo, che non è più fisico. Un cielo di pura luce, che è anch’essa una luce incorporea, a noi ignota: una luce intellettüal.
È la prima volta, nella storia della poesia umana, che si entra in un simile cielo. Questo non è più il cielo di Cicerone, che dall’alto delle sfere ruotanti indica la remota terra. E neppure quello di Marziano Capella, dove giunge stupita la Filologia. A quell’ordine appartenevano ancora i cieli appena lasciati, i cieli «storici» del sistema tolemaico. Questo luogo creato da Dante è qualcosa di diverso, mai cantato in poesia, fuori dello spazio, immisurabile e quindi indescrivibile. Di qui nasce la singolarità di questo canto rispetto a tutti gli altri. Esso apre l’ultima parte del Paradiso, il blocco dei quattro canti dedicati all’Empireo, che segnano il vertice dell’invenzione poetica di tutta la cantica, e di tutto il poema.
E la loro estrema novità è tutta instaurata, nelle sue soluzioni figurative e stilistiche, in questo canto XXX, che ha quindi una freschezza d’invenzione, un continuo aprirsi di meraviglia, che nessun altro può vantare