Tra i numerosi àmbiti ai quali Dante attinge per costruire le molte similitudini che incontriamo nella Commedia (se ne contano circa cinquecento lungo tutto il poema), vi è quello del sogno. Le due similitudini che hanno come elemento figurante, cioè come termine di paragone, l’esperienza del sogno, si trovano in due luoghi della Commedia molto distanti tra loro: una nell’Inferno, l’altra nel Paradiso. Quella contenuta nel trentatreesimo canto della terza cantica, e dunque in chiusura del poema, è forse quella più nota. Dante sta descrivendo la visione di Dio e la sensazione che questa gli ha lasciato. Per aiutarci a comprendere ciò che ha provato ricorre a un’esperienza molto comune che a tutti noi càpita di sperimentare: la persistenza, appena risvegliati, della sensazione che il sogno ci ha lasciato senza però riuscire a ricordare il contenuto del sogno stesso. Leggiamo da Paradiso XXXIII, vv. 58- 63
“Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.”
e parafrasiamo le due terzine:
Quale colui che appena risvegliatosi dopo aver sognato, si accorge che le sensazione generata dal sogno è ancora impressa ma non riesce a richiamare alla mente l’oggetto del sogno stesso, così mi sento io, che mentre sta per svanire in me la visione (di Dio) ancora sento la dolcezza che da essa è generata.
Il procedimento figurale prosegue nella terzina immediatamente successiva con due esempi tratti, rispettivamente, da un fenomeno naturalistico e dal mito; dunque senza più riferimento al mondo onirico, ma riporto la terzina, valesse solo la sua bellezza:
“Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.”
(ivi, 64-66)
Tornando alle terzine precedenti, si noti che l’uso di sogno e sognando nello stesso discorso costituisce un’ altra figura retorica, chiamata figura etimologica, cioè l’utilizzo di termini corradicali come artifizio retorico (quella più famosa la troviamo in Inferno V: “Amor ch’a nullo amato amar perdona” dove l’accostamento di “amor”, “amato” e “amar”, corradicali tra loro, ha notevole valore espressivo). La figura etimologica la troviamo anche nell’altra similitudine a tema onirico, che incontriamo nel trentesimo canto dell’Inferno e che evoca un meccanismo psicologico se vogliamo ancora più complesso, ma anch’esso comune.
“Qual è colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,
tal mi fec’io, non possendo parlare,
che disiava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.” (Inf., XXX 136-141)
(“sogna”, “sognando”, “sognare” formano una figura etimologica)
Cosa ci vuol dire Dante con questo complesso costrutto figurale? Per comprendere a fondo il significato occorre una premessa che chiarisca il contesto narrativo in cui la similitudine si colloca. Siamo nel basso Inferno, precisamente nella decima bolgia dell’ottavo cerchio dove sono puniti i falsari. La pena che Dante immagina per questo gruppo di peccatori è particolarmente crudele e concepita secondo una perfetta applicazione del principio del contrappasso: come i falsari nella loro vita hanno alterato ora i metalli, ora le monete, ora le parole, ora la persona, così scontano i loro peccati attraverso mutamenti del proprio corpo e della loro psiche, alterati da gravi malattie. Tra i falsari, Dante e Virgilio incontrano il greco Sinone e Maestro Adamo, i quali a seguito di uno scambio di ingiurie vengono alle mani. Dante, in questo caso personaggio, si sofferma incuriosito ad assistere all’alterco tra i due, al che segue una severa reprimenda di Virgilio, che minaccia a sua volta di venire alle mani con lui per essersi lasciato attrarre da una scena così bassa (“che per poco che teco non mi risso!”). Per descrivere il suo desiderio di scusarsi con la preziosa guida, Dante, con una improvvisa impennata stilistica sviluppa la complessa comparazione che abbiamo appena riportato e che sicuramente necessita di essere parafrasata:
Come colui che fa un brutto sogno (dannaggio è un gallicismo che vale “danno”) e sognando si augura che sia solo un sogno, desiderando così ciò che è in realtà come se già non lo fosse, così io, che non osavo parlare (per la vergogna) ma che desideravo scusarmi, mi stavo scusando (attraverso il tacere) senza rendermi conto di farlo.
Dunque il desiderio di scusarsi di Dante protagonista diventa realtà, senza che lui stesso se ne accorga, proprio come il desiderio del sognatore.
Simone Salvi