E non chiamatelo “zanzarologo”

Le previsioni che questo scienziato riporta fin dall’inizio della pandemia si sono puntualmente avverate e si stanno avverando, purtroppo. E non perché abbia chissà quale dote divinatoria, ma perché parla in base all’epidemiologia. E l’epidemiologia è una scienza medica fondata sulla matematica. Parlare in spregio ai numeri non è segno di intelligenza. Trovo disgustoso che qualche altro scienziato si sia riferito a lui con l’appellativo a scopo deprezzativo di “zanzarologo”. Sì, la ricerca scientifica di Crisanti negli anni recenti si è sviluppata nel solco dello studio delle zanzare come vettori della Malaria, malattia che è tutt’altro che estinta e che causa mezzo milione di morti ogni anno. Ebbene, nel 2018 un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra da lui guidato ha messo a segno una tecnica fondata sulla “gene drive” per bloccare la replicazione di una specie di zanzara Anopheles particolarmente diffusa nell’Africa sub-sahariana.
Rattrista davvero che nel nostro sciagurato Paese, peraltro in un momento storico come quello in corso, una tale voce resti “clamantis in deserto”.
Tutta la mia stima al professor Andrea Crisanti.
Simone Salvi

Anna Maria Chiavacci Leonardi, Introduzione al canto XXX del Paradiso

Proemio. Il canto XXX si distacca, nell’oggetto e nella forma poetica, da tutto ciò che lo precede. Quello che prima era visibile sparisce, al suo inizio, davanti agli occhi, e non resta più nulla: il poeta è posto nella condizione di nulla vedere. Singolare condizione, in questo racconto che è una trama continua di cose viste. Ma tale vuoto di realtà visibili segna il passaggio alla nuova dimensione in cui sta entrando il poema: l’ingresso nell’Empireo, che è il tema del canto, porta con sé l’uscita dallo spazio, e quindi dal tempo (vv. 38-9). Il cielo umano si allontana vertiginosamente (Forse semilia miglia di lontano / ci ferve l’ora sesta…) e ci si trova in un altro cielo, che non è più fisico. Un cielo di pura luce, che è anch’essa una luce incorporea, a noi ignota: una luce intellettüal.

È la prima volta, nella storia della poesia umana, che si entra in un simile cielo. Questo non è più il cielo di Cicerone, che dall’alto delle sfere ruotanti indica la remota terra. E neppure quello di Marziano Capella, dove giunge stupita la Filologia. A quell’ordine appartenevano ancora i cieli appena lasciati, i cieli «storici» del sistema tolemaico. Questo luogo creato da Dante è qualcosa di diverso, mai cantato in poesia, fuori dello spazio, immisurabile e quindi indescrivibile. Di qui nasce la singolarità di questo canto rispetto a tutti gli altri. Esso apre l’ultima parte del Paradiso, il blocco dei quattro canti dedicati all’Empireo, che segnano il vertice dell’invenzione poetica di tutta la cantica, e di tutto il poema.

E la loro estrema novità è tutta instaurata, nelle sue soluzioni figurative e stilistiche, in questo canto XXX, che ha quindi una freschezza d’invenzione, un continuo aprirsi di meraviglia, che nessun altro può vantare

Gli accorgimenti per tentare di limitare i contagi sono sempre gli stessi.

Renzo, s’incamminò con la sua pace, bastandogli d’arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon’ora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da’ suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c’era de’ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio, gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l’uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.

A. Manzoni, I promessi sposi, Capitolo XXXIII

Quanto vorrei che il Presidente restasse lui…

La Patria – intesa come comunità di persone che avvertono la condivisione di origini, storia, lingua, valori, destino – è un concetto preesistente alla sua realizzazione in unità politica e statale. Dante è in realtà il grande profeta dell’Italia, un patriota visionario, destinato, quasi biblicamente, a scorgere ma non a calcare la Terra vagheggiata e promessa. Il contributo artistico, culturale e linguistico che Dante ha fornito alla formazione dell’Italia è immenso e inestimabile.”  (Sergio Mattarella, 2020)

G. Caproni, La festa notturna

Prendo spesso in mano l’edizione Garzanti contenente tutte le sue poesie e talvolta l’apro a caso. Ultimamente lo faccio verso l’ultima parte del libro, quella in cui si trova Res amissa, la raccolta postuma pubblicata nel 1991, a un anno dalla morte dell’Autore. Qualche giorno fa mi sono imbattuto in questa: l’ho letta una prima volta d’un fiato e arrivato a “cielo duro di stelle come ghiaia” il fiato quasi mi è mancato. Poi rileggendola una seconda volta mi sono commosso (non è un’iperbole) e ancora oggi ad ogni rilettura, o anche solo pensandola, sopraggiunge l’emozione che un testo così suscita. Dal punto di vista poetico qua c’è tutto: il susseguirsi quasi spasmodico dei versi che non è minimamente scalfito dalle numerose inarcature (o enjambement), la presenza praticamente in ogni verso delle consonanti liquide a dare un senso di leggerezza (gioverà qui ricordare che Caproni si formò in Conservatorio studiando violino), l’uso calibratissimo delle allitterazioni, le sinestesie, gli ossimori ravvicinati. E naturalmente l’endecasillabo, il più nobile verso della poesia, per di più in rima baciata. Mi perdonerà il buon professor Keating de L’attimo fuggente, ma una sommaria rassegna degli elementi tecnici mi pareva necessaria per mostrare come una finissima arte poetica qua non tolga nulla, ma anzi aggiunga, alla vivida resa di questo splendido idillio notturno.

Simone Salvi

 

Una terzina da Purgatorio XXIII

Purgatorio XXIII, VI cornice, quella dei golosi: tra le anime purganti Dante incontra il suo amico Forese Donati, morto da soli quattro anni. La terzina che si apre con il verso 76 rappresenta uno dei più straordinari passi del parlato di tutta la Commedia; una terzina in cui, come notò la grandissima Anna Maria Chiavacci Leonardi, “le parole dell’uso quotidiano si dispongono nell’endecasillabo come nella loro sede naturale, senza alcun mutamento. Risultato di un’arte matura e profonda, per cui il verso e la terzina divengono quasi il respiro stesso dell’espressione, e la naturalezza ottenuta riflette la spontaneità del rapporto da amico ad amico.

E io a lui: “Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.

Purg., XXIII 76-78

Per approfondire l’arte del dialogo nella Commedia rinvio a L. Serianni, Per l’italiano di ieri e di oggi, Bologna, Il Mulino, 2017.

 

Simone Salvi