Questa splendida miniatura di accompagnamento a Purgatorio I raffigura in un’unica scena Dante e Virgilio che dalla ‘natural burella‘ escono ‘a riveder le stelle‘ e il successivo incontro con il severissimo Catone sulla spiaggia del Purgatorio. Il codice è il Palatino 313, noto anche come Codice Poggiali (dal nome di uno dei suoi possessori ottocenteschi: l’editore livornese Gaetano Poggiali), oggi conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze. L’autore della miniatura, ignoto, è indicato come ‘Maestro del Dante di Petrarca’ sulla base dell”affinità stilistica con l’autore delle illustrazioni miniate che adornano il codice Vaticano Latino 3199, noto per essere il manoscritto che Boccaccio donò all’amico Petrarca intorno al 1350.

DANTE FONDATORE DELLA CRITICA D’ARTE ITALIANA

“Sui primi del Trecento un uomo che guarda certi fogli di un libro di diritto, miniati da un pittor bolognese del tempo, si avvede che quelle carte «ridono». Dante, perché si tratta di lui, fonda con quella frase, e proprio nel cuore del suo poema, la nostra critica d’arte.”  Roberto Longhi, Proposte per una critica d’arte, 1950.

Ne scrive Chiara Murru in questo bell’articolo per Treccani.it

https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_315.html

Anna Maria Chiavacci Leonardi, Introduzione al canto XXX del Paradiso

Proemio. Il canto XXX si distacca, nell’oggetto e nella forma poetica, da tutto ciò che lo precede. Quello che prima era visibile sparisce, al suo inizio, davanti agli occhi, e non resta più nulla: il poeta è posto nella condizione di nulla vedere. Singolare condizione, in questo racconto che è una trama continua di cose viste. Ma tale vuoto di realtà visibili segna il passaggio alla nuova dimensione in cui sta entrando il poema: l’ingresso nell’Empireo, che è il tema del canto, porta con sé l’uscita dallo spazio, e quindi dal tempo (vv. 38-9). Il cielo umano si allontana vertiginosamente (Forse semilia miglia di lontano / ci ferve l’ora sesta…) e ci si trova in un altro cielo, che non è più fisico. Un cielo di pura luce, che è anch’essa una luce incorporea, a noi ignota: una luce intellettüal.

È la prima volta, nella storia della poesia umana, che si entra in un simile cielo. Questo non è più il cielo di Cicerone, che dall’alto delle sfere ruotanti indica la remota terra. E neppure quello di Marziano Capella, dove giunge stupita la Filologia. A quell’ordine appartenevano ancora i cieli appena lasciati, i cieli «storici» del sistema tolemaico. Questo luogo creato da Dante è qualcosa di diverso, mai cantato in poesia, fuori dello spazio, immisurabile e quindi indescrivibile. Di qui nasce la singolarità di questo canto rispetto a tutti gli altri. Esso apre l’ultima parte del Paradiso, il blocco dei quattro canti dedicati all’Empireo, che segnano il vertice dell’invenzione poetica di tutta la cantica, e di tutto il poema.

E la loro estrema novità è tutta instaurata, nelle sue soluzioni figurative e stilistiche, in questo canto XXX, che ha quindi una freschezza d’invenzione, un continuo aprirsi di meraviglia, che nessun altro può vantare

“Però puote anche parere così per l’organo visivo, cioè l’occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e in alcuna debilitade; sì come avviene molte volte, che per essere la tunica de la pupilla sanguinosa molto, per alcuna corruzione d’infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la stella ne pare colorata. 14. E per essere lo viso debilitato, incontra in esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in su la carta umida: e questo è quello per che molti, quando vogliono leggere, si dilungano le scritture da li occhi, perché la imagine loro vegna dentro più lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera discreta ne la vista. 15. E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. 16. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de l’occhio con l’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato de la vista. E così appaiono molte cagioni, per le ragioni notate, per che la stella puote parere non com’ella è.”

Dante, Convivio III IX 13-16

Dante e Folchetto

Tra i molti meriti linguistici del Padre Dante spicca quello onomaturgico, ovvero la coniazione di nuovi vocaboli. L’ abilità nel creare parole nuove si rende necessaria e manifesta in particolare nel Paradiso, dove l’appressarsi a descrivere la visione di Dio, l’ineffabile per antonomasia, richiede linguaggio alato e nuovo.
Il canto IX del Paradiso, ambientato nel terzo Cielo della Cantica, quello di Venere, sede degli spiriti amanti, offre nell’arco di poche terzine tre splendidi esempi di conio lessicale dantesco nei verbi “inluiarsi”, “intuarsi” ed “inmiarsi”.
In termini linguistici si tratta di formazioni verbali parasintetiche, ottenute aggiungendo simultaneamente un prefisso ed un suffisso ad una parola base.
A dialogare tra loro sono il Poeta ed il suo collega Folchetto di Marsiglia.

Simone Salvi

Riecheggiamenti danteschi negli scritti scientifici di Leonardo Da Vinci

In uno scritto sul movimento delle acque confluito nel Codice Arundel (uno zibaldone di scritti leonardeschi che trae il nome dal suo primo proprietario, Henry Howard, XXII Conte di Arundel) si legge: “Così di qua, di là, di su, di giù scorrendo, nulla quiete la riposa mai, non che nel corso, ma nella sua natura.”
Riporto i celebri versi danteschi solo perché sono talmente belli da superare l’evidente ridondanza: “così quel fiato li spiriti mali; di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena.” Inf. V 42- 45

Simone Salvi