A completamento dell’articolo “Sciocchezzaio su Antigone di Eva Cantarella e Umberto Galimberti” dell’8/11/2017, pubblichiamo la seconda parte con le osservazioni alle considerazioni di U. Galimberti

Riguardo al mito di Antigone molto discutibile appare anche l’interpretazione che ne dà Umberto Galimberti nell’articolo “la Legge della Famiglia e la legge di tutti”, supplemento 2 febbraio 2013 al giornale La Repubblica, forse fuorviato dai versi 661-662 della tragedia “Antigone” di Sofocle che dicono: “Chi è corretto nei rapporti famigliari, sarà giusto anche verso la città”. Secondo Galimberti Sofocle “presenta Creonte come tiranno malvagio e Antigone come eroina.” Galimberti prosegue dicendo che “Hegel… non concorda con Sofocle, perché a suo parere i diritti del sangue e della parentela, non possono aver la meglio sulle leggi della città. La requisitoria di Galimberti prosegue così: “volendo riportare ai giorni nostri e in particolare alla situazione italiana il tema dell’Antigone, non vinceremo mai la mafia se la legge della parentela e del sangue hanno la meglio sulla legge della città, non arriveremo mai a migliorare la città se la legge familistica della raccomandazione, delle conoscenze, dello scambio di favori privilegia figli e parenti ai meritevoli. E non vale neppure invocare le leggi non scritte e immutabili degli dei, come fa Antigone, perché non può esserci interferenza religiosa nella formulazione e nell’ossequio alle leggi della città…Sofocle, mettendo in scena il conflitto tra la legge del sangue, della parentela, degli dei e la legge della città, offre nel V secolo un grande tema su cui riflettere. La prima obiezione a simili ragionamenti è questa: non si può in alcun modo strappare dal contesto storico in cui è stata scritta la tragedia da Sofocle e scaraventarla arbitrariamente in un contesto moderno. Seconda obiezione: come detto prima, riguardo alle opinioni espresse da Eva Cantarella esiste da sempre il diritto consuetudinario o “Ius cogens”, ossia l’insieme di norme che, per essere poste a tutela di beni o valori ritenuti fondamentali dalla comunità internazionale nel suo insieme, sono riconosciute come imperative, o inderogabili e preordinate e di rango superiore rispetto alle

leggi degli stati: tra queste norme, sia nel mondo classico greco-romano, come già detto, sia, aggiungo ora, nella tradizione giudaico-cristiana il diritto alla sepoltura era sacro e inviolabile. A questo sacro principio obbedisce Antigone che non può essere in alcun modo accusata di un anacronistico “familismo amorale” (non siamo nella Basilicata di Banfield, 1958). Il dovere di disobbedire a leggi ingiuste contrarie al diritto consuetudinario, preordinato a qualunque legge umana, ha ispirato il comportamento di Antigone che seppellisce il fratello Polinice, violando il divieto imposto per legge da Creonte. Riassumendo quanto detto in precedenza, sia Eva Cantarella che Umberto Galimberti accusano Antigone di voler “dare sepoltura al fratello contro i valori della Polis” (Eva Cantarella) o addirittura (Umberto Galimberti) di “interferenza religiosa” avendo privilegiato “la legge del sangue, della parentela, degli dei” rispetto all’osservanza della “legge della città” Ma la convinzione che sia Eva Cantarella che Umberto Galimberti diano una interpretazione errata del comportamento di Antigone emerge come un dono dagli stupendi versi 449-457 della tragedia di Sofocle: in essi appare evidente come Antigone, lungi dall’essere pervasa da una mistica religiosa del tutto estranea al politeismo greco del V secolo A.C. ( la “interferenza religiosa”di Galimberti), abbia ben chiaro il concetto di “Ius cogens”. Leggiamo attentamente la risposta di Antigone al tiranno liberticida (Antigone versi 449-457; per chi non conosce l’alfabeto greco utilizzo quello latino, comune a molte lingue moderne): “Kreonte: kài déta (e nondimeno) etòlmas (osavi) toùs d’uperbàinen nòmous (queste violare norme)? Antigone: ou gàr tì moi (non infatti mica a me) Zéus (Giove) én (era) o (colui che) keruxas (intimava) tàde (quegli ordini),/oud’e (né la) xùnoikos (coabitante) tòn kàto (con i disotto) theòn (dei) Dìke (Giustizia)/ toioùsde en anthropòisin (siffatte negli uomini) òrisen nòmous (fissò norme);/ oude sthènein (né fossero forti) tosoùton (in tale misura) oòmen (credevo) tà sa/ kerùgmata (i tuoi ordini), òst’àgrapta kasphalé (kài asphalé) (al punto da, non scritte e immutabili) theòn (degli dei) / nòmima (leggi) dùnasthai (potere) thnetòn ònth’uperdraméin (tu, essendo mortale, violare);/ou gàr ti (non infatti per niente) nùn ge kachtés (kài achtés) (ora certo e da ieri), all’aéi pote (ma da sempre)/ zé (esistono) tàuta (queste) (sottinteso:leggi), koudéis (kai oudéis) (e nessuno) òiden (sa) ex òtou (perché) ephàne (comparvero). Ossia: “Creonte: E nondimeno osavi trasgredire queste leggi. Antigone: Infatti non era mica Zeus che mi intimava quegli ordini, né la Giustizia, che abita con gli dei sotterra, fissò siffatte leggi fra gli uomini; né io credevo che i tuoi ordini fossero forti a tal punto, da potere tu, che sei mortale, violare le leggi non scritte e immutabili degli dei; poiché esse non da oggi, certo, e da ieri, ma da sempre esistono e nessuno sa perché comparvero.” La nobile figura di Antigone e la sua sacrosanta violazione della legge disumana imposta da Creonte vengono illustrate dai versi eloquenti che Sofocle mette in bocca a Emone figlio di Creonte e innamorato di Antigone di cui, in un estremo atto di amore, seguirà la tragica sorte: Antigone versi 692-700: “Emòi d’akoùein (a me udire invece) ésth’upò skòtou (è possibile nell’ombra) tàde (tali discorsi),/ tén pàida tàuten (questa fanciulla) òi’odùretai pòlis (cioè compiange la città),/ pasòn gunaikòn (di tutte donne) os anaxiotàte (come la più immeritevole sottinteso: di soffrire)/ kakista (in pessimo stato, nella più miserevole condizione) ap’érgon eukleestàton (per azioni gloriosissime) phthìnei (perisce, muore);/ étis (lei che) tòn autés autàdelphon (il di lei proprio fratello) en phonàis (nelle stragi)/ peptòta (caduto) àthapton (insepolto) meth’up’omestòn kunòn (né da crudivori cani)/ èiase olésthai (permise venisse distrutto,divorato) mèth’up’oionòn (né da degli uccelli rapaci) tinòs (alcuno);/ouk (non) éde ( sottinteso:sarebbe invece) chrusés (un aureo)

axìa (degno) timés (onore) làchein (di ricevere)? Toiàde (siffatta) eremné (oscura) sìg’éperchetai (sommessamente si diffonde) phatis (diceria). Ossia: “A me invece è possibile udire siffatti discorsi nell’ombra, come ad esempio che la città compiange questa fanciulla e che essa, la più immeritevole di soffrire di tutte le donne, muore miseramente per gloriosissime azioni, lei che non permise che il fratello, caduto nelle stragi, insepolto, venisse divorato da cani mangiatori di carne cruda e da uccelli rapaci. Non sarebbe essa invece degna di ricevere un aureo onore? Siffatta oscura diceria si diffonde sommessamente.” Come si vede la pietosa sepoltura di un cadavere era doverosa nella Grecia classica proprio per evitare lo strazio del corpo umano da parte di cani e uccelli rapaci. La remotissima tradizione del pietoso seppellimento dei cadaveri già evidentissima negli ominidi (Homo neanderthalensis, Homo sapiens) continua nel mondo classico greco-romano e si perpetua nella tradizione giudaico-cristiana (la Bibbia, Vangelo di Matteo 25, 31-46). La Chiesa Cattolica aggiunge alle sei opere di misericordia corporali illustrate nel suddetto passo del Vangelo di Matteo anche il seppellimento dei cadaveri come settima opera di misericordia corporale immortalata nel polittico del Maestro di Alkmaar (The Netherlands) datato 1504. Anche in questo caso, nel criticare le considerazioni di Umberto Galimberti, cito con maggiori dettagli, la risposta di Don Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell’11-2-1965 e la lettera di Don Milani ai giudici che lo processano datata 18 ottobre 1965 riunite nel libro “L’obbedienza non è più una virtù” della Libera Editrice Fiorentina (1965) in cui viene affermato l’obbligo di disobbedire agli ordini ingiusti e di non rispettare le leggi che violino i diritti fondamentali dell’essere umano, assumendosi la responsabilità di una simile scelta e accettandone le conseguenze. Una citazione finale in merito al dovere eterno di seppellire i morti la riservo al film “Biruma no Tategoto” (“L’Arpa Birmana” in Italia) capolavoro del regista Kon Ichikawa (1956) così illustrato da Fernaldo Di Giammatteo nel Dizionario del cinema: “A guerra conclusa (luglio 1945), un gruppo di soldati giapponesi ancora prigionieri in Birmania incontra nella foresta uno strano bonzo, con un’arpa e un pappagallo sulle spalle. È un loro compagno considerato disperso, Mizushima, ancora sconvolto, chiuso in un mutismo impenetrabile. Il suo comandante, anche dopo la capitolazione del Giappone rifiutò di arrendersi e condusse i propri uomini al macello. Mizushima fu l’unico sopravvissuto. Ferito, dopo aver vagato a lungo, fu raccolto e curato da un bonzo pietoso. Guarito, col proposito di raggiungere i suoi, s’imbatté nel cumulo di cadaveri ammassati nella pianura. Ora il suo compito è quello di seppellire quei morti, dedicando la propria vita di monaco ad onorare i caduti (anche quelli nemici). Mentre i compagni ritornano in Giappone, Mizushima, sordo ai loro richiami, resta in Birmania a continuare la sua missione.” Invia loro questa lettera: «Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano. Ho visto l’erba bruciata, i campi riarsi… perché tanta distruzione caduta sul mondo? E la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà. Quanti dovrebbero avere questa pietà! Allora non importerebbero la guerra, la sofferenza, la distruzione, la paura, se solo potessero da queste nascere alcune lacrime di carità umana. Vorrei continuare in questa mia missione, continuare nel tempo fino alla fine.» (Wikipedia). Per concludere, come si vede, Antigone è in buona compagnia visto che in un recente capolavoro cinematografico il seppellimento di un morto è tuttora considerato come un sacro dovere e non come una pratica di familismo amorale.

Mariano Puxeddu

MAESTRO DI ALKMAAR

PANNELLO CON LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA

1504- olio su tavola

Chiesa di San Lorenzo, Alkmaar

Nel 1891 Giuseppe Verdi rispondeva così ad un signor Bramanti che lo aveva importunato per un monumento a Dante in Ravenna

” Rimediare all’inconveniente… Ella dice? Ma quale? Inconveniente perché io non ho mandato il mio obolo pel monumento a Dante? Dante si è innalzato da se stesso monumento tale, e di tale altezza, cui nissuno arriva. Non abbassiamolo con manifestazioni che lo mettono a livello di tant’altri, anche i più mediocri. A quel nome io non oso alzare inni: abbasso il capo, e venero in silenzio “.

Il Comandante De Falco sale a bordo della Nave Jonio di Mediterranea per salvare vite umane.

Perché la missione del Corpo cui appartengo è prodigarsi. In mare, in acqua, non ci sono migranti, ci sono persone. E queste persone se proprio dobbiamo dargli un’etichetta sono naufraghi.”

Gregorio De Falco

da Il Tirreno del 7 Aprile 2019.

 

Dall’articolo di Nicola Maranesi “Giuseppe, emigrato dalla Sicilia a Prato alla ricerca di dignità e diritti”, pagg. 22-23, Il Tirreno del 7 aprile 2019

DIARIO DI GIUSEPPE SPARACINO (2003)

dall’Archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo)

«Voi non ci crederete- diceva Sparacino- ma io ho lasciato la mia Sicilia, il mio dialetto, i miei amici, i miei parenti per passare da oggetto a soggetto; c’è una semplicissima “S” di mezzo. Come facevo, allora, a spiegare a mia madre, che emigravo per una “S”? E non per andare a fare fortuna? Che il problema non era accumulare un gruzzoletto, era fonte di sicurezza, di vita e di certezza basilare? Tutto questo avveniva nel 1960. E ora? E ora? Nelle baracche dove sono ammassati i nuovi emigrati, di tutte le razze e colori, che cosa succede? Come vivono? Di che cosa hanno riempito la loro valigia? I loro parenti, i loro amici saranno andati a salutarli al torpedone? Le loro mamme avranno pianto, il pianto straziante della separazione dai loro figli? Il loro viaggio sarà stato disperato tra i disperati’? A mio modo di vedere… la naturale aspirazione dell’uomo a cercare spazio di sopravvivenza umana e civile non ha epoche, prima si capirà, e prima vivremo meglio nel nuovo contesto di globalizzazione, dove il mondo diventa sempre più piccolo e l’uomo sempre più cosciente di essere uomo. Qual è, mi domando, la differenza tra la mia emigrazione, tra l’emigrazione dei ventisette milioni di emigranti italiani del secolo scorso e gli attuali emigranti dalla Nigeria o da qualsiasi altro angolo della terra? Non c’è nessuna differenza! L’unico denominatore comune è: la fame, l’emancipazione, i diritti; i diritti, che dovrebbero essere, sempre, di tutti e mai privilegi di pochi. La differenza è solo temporale: i carri bestiame di allora si equivalgono con le carrette del mare di adesso. Le ingiurie, i modelli di accoglienza sono uguali e gli immigrati di oggi sono uguali agli immigrati italiani nel mondo di trenta, cinquanta o ottant’anni or sono e…saranno uguali a tutti coloro che emigreranno per fame e per sete. Che ci piaccia o no, finché non sarà soddisfatta la fame e la sete dei paesi più poveri, con qualsiasi mezzo legale o illegale, a rischio della vita, con arroganza o con umiltà ci sarà sempre gente che cercherà di venire a raccogliere le briciole del nostro spreco e a bere l’acqua delle nostre fontane.»

 

Introduzione alla lettura del canto XV dell’Inferno di Dante

Il canto XV dell’Inferno si svolge nel terzo girone del settimo cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio e nella fattispecie i sodomiti. Qua Dante incontra Brunetto Latini, concittadino, notaio e suo maestro di retorica negli anni fiorentini, le cui vite sono accomunate dall’aver vissuto l’esperienza dell’esilio. In un suo poemetto intitolato Tesoretto, scritto in volgare fiorentino, il Latini racconta di essere stato raggiunto dalla notizia della disfatta guelfa di Montaperti (la celebre battaglia combattuta il 4 Settembre nel 1260 a cui allude Dante con i celebri versi “lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso” Inf. XX, 86-87 ) a Roncisvalle, di ritorno dalla corte di Alfonso X di Castiglia presso cui era stato inviato in missione diplomatica per la parte guelfa della città di Firenze. La vittoria ghibellina costrinse Brunetto Latini a sei anni di esilio in Francia, dove soggiornò in varie località e dove, oltre al già citato poemetto, scrisse in lingua d’oil la sua opera nota, Il livre dou Tresor, indicato spesso con il titolo italianizzato di Tesoro. Mette conto notare che dell’omosessualità di Brunetto Latini ad oggi non vi è menzione se non nella Commedia. Questo è un dato significativo al fine di un’analisi contenutistica del canto, argomento su cui molto si è scritto e su cui qua non mi soffermerò, essendo questa un’introduzione alla lettura. Ciò che vorrei invece far notare è la mirabile struttura architettonica del canto, che ha le fondamenta nel dialogo tra il Poeta e Brunetto, splendidamente cesellato nella costruzione e denso di aspetti psicologici.

La pena dei sodomiti consiste nell’andare continuo su una landa sabbiosa rovente sotto una pioggia di fuoco ed è un andare eterno, perché qualora si arrestassero, sarebbero costretti a rimanere fermi  per cento anni senza la possibilità di ripararsi dalle fiamme. Dante e Virgilio arrivano all’incontro con i dannati camminando lungo uno degli argini del Flegetonte, il fiume di sangue bollente che era stato introdotto nel canto precedente in una similitudine che richiama una sorgente termale, il Bulicame, ancora oggi attiva nei pressi di Viterbo, (“Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello”, Inf. XIV, 79- 81) ed è proprio il vapore che sale da questo a riparare i due dalla pioggia di fuoco. Il canto si apre con due similitudini di tipo geografico utili per rendere ancor più efficace l’immagine degli argini del Flegetonte (“Quale fiamminghi tra Guizzante e Bruggia […] E quali Padoan lungo la Brenta”) che sono paragonati ora alle dighe erette dai fiamminghi per difendersi dall’alta marea ora alle fortificazioni costruite lungo il fiume Brenta per proteggere le costruzioni abitate dalle esondazioni del fiume a seguito dello scioglimento delle nevi montane che ne ingrossano il corso. I due poeti incontrano qui la schiera dei sodomiti,  che procedono ad un livello più basso rispetto a quello dell’argine e dalla quale si stacca uno dei dannati che, riconosciuto Dante, lo afferra per l’estremo lembo dell’abito ed esclama “Qual maraviglia!”. L’autore del gesto è Brunetto Latini, che sorpreso di incontrare il suo allievo in questo luogo esordisce con un’esclamazione di stupore. Il poeta si abbassa verso il dannato che lo ha appena riconosciuto per tentare di fare altrettanto e nonostante il volto di questo sia ormai arso dal fuoco vi riconosce il suo maestro degli anni giovanili. Trovo qui utile riportare per esteso i versi in cui l’incontro è descritto e soffermarmi su alcune scelte lessicali:

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”.

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”.

E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.

I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco”.

Inf. XV, 22- 36

Efficace sia per la sua scelta che per la sua collocazione, opportunamente isolato dalle pause ritmiche, l’avverbio di luogo qui, così denso di significato e su cui si incardina l’intera terzina che lo contiene. Provate a leggere ad alta voce questo qui e vi sarà evidente tutto il suo valore, perfettamente funzionale all’espressione dello stupore, questa volta del poeta.

Le due terzine successive inaugurano quell’atmosfera familiare che pervaderà tutto il dialogo tra i personaggi, nel quale lo stupore iniziale lascia spazio alla dolcezza, resa efficacemente attraverso l’uso di espressioni come figliuol mio e ven preco. Dolcezza che è suggellata in una terzina collocata verso la chiusa del canto e contenente le parole commosse di Dante nel ricordare gli anni trascorsi ad imparare da Brunetto; parole che sono al contempo uno splendido inno a due altissimi valori, ugualmente eterni ed universali finché esisterà l’uomo: la cultura e l’amicizia.

“Se fosse tutto pieno il mio dimando”,
rispuos’io lui, “voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’etterna:”

  1. 79- 85

Prima di riportare per esteso il canto, concludo facendo notare che questo è uno dei luoghi della Commedia in cui si profetizza l’esilio di Dante, questa volta per bocca di Brunetto, e non così distante dalla profezia di Farinata ascoltata nel canto X:

Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

  1. 55- 72

Mette conto notare che questa profezia si avvia con una delle numerose esternazioni di consapevolezza del proprio ruolo di intellettuale e dell’altezza della propria produzione letteraria da parte del poeta, espressa qui tramite le parole del Latini:

Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;

Evidente come queste parole anticipino quelle forse più famose pronunciate da Cacciaguida nel XVII del Paradiso:

questo tuo grido farà come vento”. Par. XVII, 133

che a loro volta arieggiano quelle almeno altrettanto note ed altissime di Orazio “Exegi monumentum aere perennius  – Ho fatto un monumento che durerà più del bronzo”, Odi, 30, III.

Simone Salvi

Riportiamo qua per intero il canto XV.

 

Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi,

quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera

guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”.

E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese

la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?“.

E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”.

I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco”.

“O figliuol”, disse, “qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.

Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni”.

Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada. 45

El cominciò: “Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?”.

“Là sù di sopra, in la vita serena”,
rispuos’io lui, “mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle”.

Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;

e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.

“Se fosse tutto pieno il mio dimando”,
rispuos’io lui, “voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;

ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora 84

m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra”.

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.

Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo saria corto a tanto suono.

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.

Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”.

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.

Condividiamo ancora perché oggi è un gran giorno. “Salvini ha avuto paura di farsi processare, io no. Un cristiano non può votare per lui.” Mimmo Lucano

https://video.espresso.repubblica.it/attualita/riace-il-sindaco-lucano-salvini-ha-avuto-paura-di-farsi-processare-io-no-un-cristiano-non-puo-votare-per-lui/12789/12885?fbclid=IwAR2KftTg7CgXL8FEVUqMsmjwSM9YnleAaSDiBKFiuV8kzr7hMvE-6FaZm44