Incipit di Paradiso XXIII

Un’apertura di canto tra le più memorabili di tutto il poema, affidata a una similitudine che si sviluppa per ben quattro terzine. Beatrice, con lo sguardo rivolto verso l’alto nella trepidante attesa della visione del trionfo di Cristo e delle schiere dei beati, è figurata attraverso la dolce immagine di un uccello, che al nido aspetta i primi lucori dell’alba per poter rivedere i suoi piccoli e uscire per procurare loro il cibo. Sono versi trasparenti che non necessitano di parafrasi. Vale però notare un aspetto linguistico che ancora una volta conferma il peso di Dante nella creazione dell’italiano moderno: almeno i primi nove versi sono in un italiano che sia sul piano sintattico sia su quello lessicale è assai vicino a quello attuale. Basti leggere il terzo verso, che, linguisticamente, moderno lo è pienamente, perché anche noi oggi diremmo: “la notte che le cose ci nasconde”. Tratti tipici dell’italiano antico sono riscontrabili, in particolare a livello lessicale, già nel primo verso nel provenzalismo augello e nel latino schietto intra. Proseguendo, al verso quattro nel sicilianismo disiati (con dieresi su –i per ragioni di metrica) – peraltro destinato attraverso la sua radice “disio” a una certa longevità letteraria-, ai versi cinque e sei, rispettivamente nel pasca (pascere), in luogo del moderno “nutrire”, e ancora nel latino labor. Ma leggiamo questi splendidi versi, magari ad alta voce, e senza indugiare nelle note.
“Come l’augello, intra l’amate fronde,
posato al nido de’ suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l’alba nasca;
così la donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver’ la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:”
Dante, Commedia, Paradiso XXIII 1-12
Simone Salvi

Con piacere segnaliamo “Il verso giusto”, il nuovo libro dell’amico Luca Serianni

https://www.corriere.it/cultura/20_novembre_16/luca-serianni-antologia-poesia-laterza-storico-lingua-italiana-d0112f2e-2770-11eb-80dd-837b5190599c.shtml?refresh_ce-cp

Pensando al piccolo Youssef, morto a sei mesi per l’indifferenza dell’Europa.

Show me a prison, show me a jail,
Show me a prisoner whose face has gone pale
And I’ll show you a young man with so many reasons why
And there but for fortune, may go you or I — you and I.
Mostrami una prigione, mostrami una galera,
mostrami un prigioniero con la faccia impallidita
ed io ti mostrerò un ragazzo e mille motivi per cui
solo per caso (al suo posto) non ci siamo te od io
Show me the alley, show me the train,
Show me a hobo who sleeps out in the rain,
And I’ll show you a young man with so many reasons why
There but for fortune, may go you or go I — you and I.
Mostrami il vicolo, mostrami il treno,
mostrami un vagabondo che dorme all’aperto, sotto la pioggia / ed io ti mostrerò un ragazzo e mille motivi per cui
solo per caso (al suo posto) non ci siamo te od io
Show me the whiskey stains on the floor,
Show me the drunken man as he stumbles out the door,
And I’ll show you a young man with so many reasons why
There but for fortune, may go you or go I — you and I.
Mostrami le macchie di whisky sul pavimento,
mostrami l’ubriaco mentre esce barcollando dalla porta,
ed io ti mostrerò un ragazzo e mille motivi per cui
solo per caso (al suo posto) non ci siamo te od io
Show me the famine, show me the frail
Eyes with no future that show how we failed
And I’ll show you the children with so many reasons why
There but for fortune, go you or I.
Mostrami la carestia, mostrami la debolezza,
occhi senza futuro che mostrano il nostro fallimento,
ed io ti mostrerò dei bambini e mille motivi per cui
solo per caso, (quei bambini) non siamo io o te
Show me the country where bombs had to fall,
Show me the ruins of buildings once so tall,
And I’ll show you a young land with so many reasons why
There but for fortune, go you or go I — you and I.
Mostrami il Paese dove sono cadute le bombe,
mostrami le rovine degli edifici un tempo così alti,
E io ti mostrerò un giovane Paese e mille motivi per cui
solo per caso, (in quel paese) non ci siamo te od io

Simone e Mariano

“Si ha l’impressione che le finestre siano state aperte all’improvviso e che un soffio d’aria pura inondi il locale” Alfred Einstein, musicologo e cugino di Albert

W. A. MOZART (1756-191)

Concerto per fagotto in si bemolle maggiore K191

E non chiamatelo “zanzarologo”

Le previsioni che questo scienziato riporta fin dall’inizio della pandemia si sono puntualmente avverate e si stanno avverando, purtroppo. E non perché abbia chissà quale dote divinatoria, ma perché parla in base all’epidemiologia. E l’epidemiologia è una scienza medica fondata sulla matematica. Parlare in spregio ai numeri non è segno di intelligenza. Trovo disgustoso che qualche altro scienziato si sia riferito a lui con l’appellativo a scopo deprezzativo di “zanzarologo”. Sì, la ricerca scientifica di Crisanti negli anni recenti si è sviluppata nel solco dello studio delle zanzare come vettori della Malaria, malattia che è tutt’altro che estinta e che causa mezzo milione di morti ogni anno. Ebbene, nel 2018 un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra da lui guidato ha messo a segno una tecnica fondata sulla “gene drive” per bloccare la replicazione di una specie di zanzara Anopheles particolarmente diffusa nell’Africa sub-sahariana.
Rattrista davvero che nel nostro sciagurato Paese, peraltro in un momento storico come quello in corso, una tale voce resti “clamantis in deserto”.
Tutta la mia stima al professor Andrea Crisanti.
Simone Salvi

Anna Maria Chiavacci Leonardi, Introduzione al canto XXX del Paradiso

Proemio. Il canto XXX si distacca, nell’oggetto e nella forma poetica, da tutto ciò che lo precede. Quello che prima era visibile sparisce, al suo inizio, davanti agli occhi, e non resta più nulla: il poeta è posto nella condizione di nulla vedere. Singolare condizione, in questo racconto che è una trama continua di cose viste. Ma tale vuoto di realtà visibili segna il passaggio alla nuova dimensione in cui sta entrando il poema: l’ingresso nell’Empireo, che è il tema del canto, porta con sé l’uscita dallo spazio, e quindi dal tempo (vv. 38-9). Il cielo umano si allontana vertiginosamente (Forse semilia miglia di lontano / ci ferve l’ora sesta…) e ci si trova in un altro cielo, che non è più fisico. Un cielo di pura luce, che è anch’essa una luce incorporea, a noi ignota: una luce intellettüal.

È la prima volta, nella storia della poesia umana, che si entra in un simile cielo. Questo non è più il cielo di Cicerone, che dall’alto delle sfere ruotanti indica la remota terra. E neppure quello di Marziano Capella, dove giunge stupita la Filologia. A quell’ordine appartenevano ancora i cieli appena lasciati, i cieli «storici» del sistema tolemaico. Questo luogo creato da Dante è qualcosa di diverso, mai cantato in poesia, fuori dello spazio, immisurabile e quindi indescrivibile. Di qui nasce la singolarità di questo canto rispetto a tutti gli altri. Esso apre l’ultima parte del Paradiso, il blocco dei quattro canti dedicati all’Empireo, che segnano il vertice dell’invenzione poetica di tutta la cantica, e di tutto il poema.

E la loro estrema novità è tutta instaurata, nelle sue soluzioni figurative e stilistiche, in questo canto XXX, che ha quindi una freschezza d’invenzione, un continuo aprirsi di meraviglia, che nessun altro può vantare

Gli accorgimenti per tentare di limitare i contagi sono sempre gli stessi.

Renzo, s’incamminò con la sua pace, bastandogli d’arrivar vicino a Milano in quel giorno, per entrarci il seguente, di buon’ora, e cominciar subito la sua ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo da’ suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c’era de’ pani in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio, gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l’uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.

A. Manzoni, I promessi sposi, Capitolo XXXIII