Dante e la visione di Dio

Nel XXXIII del Paradiso Dante si trova nell’Empireo, dove grazie alla preghiera di San Bernardo alla Vergine e alla di lei intercessione, è finalmente pronto alla visione di Dio. Il Poeta ammette l’insufficienza della sua lingua a descrivere tale ineffabile visione (“Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/ che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio. Par.XXXIII, vv. 55-57). Dio appare al Poeta pellegrino come un punto luminoso (luce etterna, ivi, v. 83) nel cui vede racchiuso tutto l’Universo. Nel descrivere questa visione Dante crea una delle sue più celebri terzine e sicuramente una delle più alte -forse la più alta?- e compiute descrizioni della visione di Dio della letteratura di ogni tempo; nella profondità della luce divina egli vede, legato come fogli in unico volume, tutto ciò che per l’Universo a noi appare sparso:

“Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna.”

(Paradiso XXXIII, vv. 85- 87)

Simone Salvi

Splendido brano dalle “Lettere a Lucilio” di Seneca

“Ecco un altro problema: come ci si deve comportare con gli uomini? Che facciamo? Che insegnamenti diamo? Di non versare sangue umano? È davvero poco non fare del male al prossimo cui si dovrebbe fare del bene! È proprio un grande merito per un uomo essere mite con un altro uomo! Insegneremo a porgere la mano al naufrago, a mostrare la strada a chi l’ha perduta, a dividere il pane con chi ha fame? Perché elencare tutte le azioni da compiere e da evitare quando posso insegnare questa breve formula che comprende tutti i doveri dell’uomo: tutto ciò che vedi e che racchiude l’umano e il divino, è un tutt’unico; noi siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generato fratelli, poiché ci ha creato dalla stessa materia e indirizzati alla stessa meta; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatti socievoli. Ha stabilito l’equità e la giustizia; in base alle sue norme, chi fa del male è più sventurato di chi il male lo riceve; per suo comando le mani siano sempre pronte ad aiutare. Medita e ripeti spesso questo verso: Sono un uomo, e niente di ciò che è umano lo giudico a me estraneo. Mettiamo tutto in comune: siamo nati per una vita in comune. La nostra società è molto simile a una volta di pietre: cadrebbe se esse non si sostenessero a vicenda, ed è proprio questo che la sorregge.”

Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, Liber XV

Un breve chiarimento a proposito della “modernità” di Dante

Quello della modernità di Dante è un aspetto del Poeta spesso abusato e utilizzato in modo improprio. Dante e la Commedia sono certamente moderni, talvolta persino contemporanei, per molti aspetti, sia di pensiero che linguistici. La Commedia è contemporanea dal punto di vista lessicale: come ha evidenziato uno studio del professor Tullio De Mauro, circa il novanta per cento delle parole fondamentali di uso corrente nella lingua italiana (si tratta di circa duemila vocaboli) erano già presenti nella poesia del Trecento e in particolare nella Commedia. In Dante uomo si possono cogliere, e dovremmo farne tesoro, la passione civile, l’impegno, la partecipazione politica, una sensibilità d’animo verso certi sentimenti che accompagnano l’uomo fin dalla sua esistenza. Ma in termini di formazione culturale il Poeta era un uomo profondamente del suo tempo. La sua cultura era fortemente intrisa dei concetti filosofici e scientifici, teologici e quindi morali, dell’epoca. Volere a tutti i costi attualizzare Dante è un errore che può rendere ridicoli. Quando non si è in grado di distinguere l’economia del contado fiorentino di fine Duecento dall’economia dell’Europa di oggi, dovremmo evitare di coinvolgere il Sommo Poeta in analisi sconclusionate ed errate che avrebbero il solo scopo di strumentalizzare quella che è forse la cima più alta della letteratura mondiale di ogni tempo a fini di propaganda politica contemporanea. E ricordiamoci che Dante fu esule e migrante, e che in questa condizione scrisse il suo capolavoro.

Simone Salvi

http://www.ilgiornale.it/news/dante-alighieri-contro-immigrati-e-caritas-1123980.html 

 

Beethoven e la musica popolare

Beethoven e le sue composizioni sono l’incarnazione del concetto di universalità della musica. Basti pensare al verso centrale e più bello dell’ An die Freude, il celebre Inno alla Gioia, musicato dal compositore su testo di Friedrich Schiller: “Alle menschen werden Brüder- Tutti gli uomini saranno fratelli”. Parole queste che dovrebbero risuonare come una speranza e che invece sono purtroppo sempre più disattese. Leggendo gli scritti del compositore, documenti preziosi per comprenderne il suo pensiero di uomo oltre a quello musicale, ci rendiamo conto di come e quanto la speranza di raggiungimento di fratellanza tra gli uomini sia un fatto centrale della sua vita e che avrà conseguenze sulla sua produzione musicale. A nutrire in parte questo ideale vi era una profonda religiosità, seppur probabilmente incostante e vissuta nel dubbio, da altissimo intellettuale illuminista quale era. Nel Testamento di Heiligenstadt, redatto nel 1802, si legge: “Dio Onnipotente, Tu dall’alto guardi nella mia anima intima, leggi nel mio cuore e sai che è colmo d’amore per l’umanità”. Nei Quaderni di Conversazione troviamo una frase che a noi autori di questo blog è particolarmente cara  per motivi che di seguito spiegheremo: “I miei modelli sono Socrate e Gesù.” Nel corpus degli scritti beethoveniani, in gran parte costituito da corrispondenze epistolari con amici, editori e mecenati, troviamo un uomo che ama il messaggio cristiano e che in questo ripone non solo un sostegno nell’affrontare le sofferenze personali, di cui non gli mancavano i motivi, ma anche un proprio modus operandi. Un uomo che cerca di agire in senso cristiano e che crede nel messaggio di Gesù. È importante osservare che citazioni dai Vangeli, lodi al Signore e la composizione di tre musiche sacre ( “Cristo sul Monte degli Ulivi, Messa in do maggiore, Missa Solemnis ) si accompagnano in questi scritti a frequenti citazioni di Kant, il padre fondatore del pensiero illuminista. Nella convulsa situazione politica dell’Europa di inizio Ottocento lo spirito francese sintetizzato nel motto Liberté, Egalité, Fraternité accompagnava certamente il pensiero beethoveniano. È un aneddoto forse abusivo quello riportato da alcuni cronisti dell’epoca, tra cui il musicista e biografo di Beethoven Ferdinand Ries,  secondo il quale il compositore pensò inizialmente ad una dedica a Napoleone Bonaparte, allora primo console, per la sua Sinfonia n.3,  la celebre “Eroica”, per poi decidere di cancellare con impeto il nome dell’imperatore dalla prima pagina della composizione a seguito dell’incoronazione di questo a sovrano. Sicuramente era un uomo che temeva e disprezza l’assolutismo e a tal proposito c’ è un aneddoto, questo un po’ più sicuro, che vale essere raccontato. Durante una passeggiata in un parco viennese Beethoven e il suo amico Goethe incontrarono l’imperatore. Goethe subito si prodigò in inchini e riverenze e accortosi che il suo amico non stava facendo altrettanto lo redarguì. Al rimprovero Beethoven rispose: cos’ha diverso da me perché debba essere io a salutarlo per primo? Insomma, Beethoven è un uomo colto che si interroga sul mondo. Mosso da aspirazioni di universalità del messaggio musicale, a partire dal 1803 ha arrangiato centosettanta canti popolari di diverse Nazioni europee, in particolare scozzesi e irlandesi. Iniziò ad attendere a questi lavori in seguito ad una lettera in cui l’editore scozzese George Thomson, già amico di Haydn, gli chiedeva di arrangiare alcuni brani popolari nazionali. Ancora una volta gli scambi epistolari tra editore e compositore ci aiutano a far luce sulla genesi di questo lavoro e sui ritmi lavorativi del musicista. In una lettera Thomson si lamenta con Beethoven perché a suo avviso lavora troppo lentamente ed è molto caro. L’apparato musicale di gran parte di queste composizioni è Voci e Trio, cioè una o più voci, violino, violoncello e pianoforte. Dal punto di vista squisitamente musicale è doveroso segnalare due aspetti di queste composizioni beethoveniane che avrebbero presto avuto influenze importanti sui successivi sviluppi della musica e non solo di quella cosiddetta colta. Il primo è che alcuni dei brani che Beethoven si trovò ad arrangiare e ad armonizzare presentavano aspetti che si avvicinavano all’atonale. L’altro aspetto, che fa di Ludwig van Beethoven uno dei massimi compositori della storia, si inserisce in quelle profezie beethoveniane in termini di generi musicali che si sarebbero poi avverate nel corso della storia della musica a partire da poco meno di cento anni dopo dalla morte del compositore. Profezie che si manifestano con gli schizzi già novecenteschi di alcune delle sue ultime composizioni pianistiche e per quartetto. Sarebbe qua troppo complicato descrivere con rigore musicologico alcune di queste straordinarie innovazioni e rimandiamo per questo a testi specifici. Ma basta un esempio, che è anche un consiglio di ascolto per i nostri lettori: lo sviluppo del secondo movimento della sua ultima sonata per pianoforte: la sonata n.32 op. 111, composta nel 1822 e pubblicata l’anno successivo con dedica all’Arciduca Rodolfo. Anche un orecchio musicalmente non avvezzo alla musica classica coglierà con facilità i toni swing e jazz di alcuni passaggi di questo vertice assoluto di tutta la musica ad oggi scritta. Nello sviluppare il tema, cioè ripresentandolo più volte con variazioni, Beethoven intraprende strade di libertà compositiva mai percorse ad allora, scavalcando il Romanticismo e affacciandosi sul Novecento. Venendo al tema del nostro articolo, anche nell’arrangiamento dei canti popolari Beethoven arrivò  in alcuni casi con cento anni di anticipo sulla storia della musica, come dimostra l’ascolto del brano che proponiamo. Il brano è intitolato “Highland Harry” e fa parte dei 25 Schottische Lieder, op. 108. Anche qua emerge facilmente all’ascolto il Beethoven innovativo e visionario (qualche critico parlò di vere e proprie visioni del compositore tentando di spiegare alcune sue ultime composizioni che all’epoca risultavano incomprensibili) sotto forma di gesti musicali che ritroveremo cento anni dopo (Highland Harry è del 1817)  nel ragtime e nella musica country. È noto che fu proprio dall’elaborazione dei canti popolari scozzesi e irlandesi introdotti alla fine dell’Ottocento da migranti provenienti da questi paesi sulla costa orientale degli Stati Uniti, soprattutto nella zona di Boston, che nacquero il folk e il country. Beethoven era già arrivato oltreoceano cento anni prima. Probabilmente è proprio attraverso questo lungo percorso del compositore attraverso la musica popolare che si possono spiegare i barlumi novecenteschi della già citata op.111 e di altre opere beethoveniane. Questa storia rappresenta l’ennesima occasione per invitare a riflettere sul fatto che la storia dell’umanità è anche una storia di migrazioni fin dalla comparsa dell’uomo e che i flussi migratori sono inevitabilmente flussi culturali e per questo motivo occasioni di arricchimento reciproco. Voltarsi dall’altra parte, odiare l’altro che è quanto di più simile a noi esiste,  mistificare la storia, è dannoso, ben poco intelligente e ci impoverirebbe culturalmente. A proposito di interpretazioni errate, di una di queste è stato vittima anche l’ An die Freude. Il brano è dal 1972 inno nazionale dell’Europa, ma è stato anche uno dei brani che il folle pensiero nazista assunse tra le sue musiche preferite, tanto da essere eseguita ad ogni compleanno del Führer, interpretando in senso individualista quello che è un inno all’universalità. A questa meravigliosa musica è toccato anche il ruolo di inno nazionale della Rhodesia, un Paese con una storia decisamente voltata al razzismo. Prima di lasciarvi all’ascolto del brano scelto, ci piace ricordare che una figura a noi cara e più volte citata nella pagine di questo blog, Don Lorenzo Milani, era solito far ascoltare ai suoi ragazzi della Scuola di Barbiana i quartetti di Beethoven e leggeva loro l’Apologia di Socrate. Tutto torna.

Buon ascolto.

Simone Salvi