G. Caproni, La festa notturna

Prendo spesso in mano l’edizione Garzanti contenente tutte le sue poesie e talvolta l’apro a caso. Ultimamente lo faccio verso l’ultima parte del libro, quella in cui si trova Res amissa, la raccolta postuma pubblicata nel 1991, a un anno dalla morte dell’Autore. Qualche giorno fa mi sono imbattuto in questa: l’ho letta una prima volta d’un fiato e arrivato a “cielo duro di stelle come ghiaia” il fiato quasi mi è mancato. Poi rileggendola una seconda volta mi sono commosso (non è un’iperbole) e ancora oggi ad ogni rilettura, o anche solo pensandola, sopraggiunge l’emozione che un testo così suscita. Dal punto di vista poetico qua c’è tutto: il susseguirsi quasi spasmodico dei versi che non è minimamente scalfito dalle numerose inarcature (o enjambement), la presenza praticamente in ogni verso delle consonanti liquide a dare un senso di leggerezza (gioverà qui ricordare che Caproni si formò in Conservatorio studiando violino), l’uso calibratissimo delle allitterazioni, le sinestesie, gli ossimori ravvicinati. E naturalmente l’endecasillabo, il più nobile verso della poesia, per di più in rima baciata. Mi perdonerà il buon professor Keating de L’attimo fuggente, ma una sommaria rassegna degli elementi tecnici mi pareva necessaria per mostrare come una finissima arte poetica qua non tolga nulla, ma anzi aggiunga, alla vivida resa di questo splendido idillio notturno.

Simone Salvi

 

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