Firenze, Palazzo Gianfigliazzi

Nell’immagine l’epigrafe sulla facciata di Palazzo Gianfigliazzi, in lungarno Corsini a Firenze, che ricorda il soggiorno di Alessandro Manzoni in città tra l’estate e l’autunno del 1827. Lo scrittore si recò nel capoluogo toscano pochi mesi dopo l’uscita della prima edizione dei Promessi Sposi, nota come “Ventisettana”, mosso dall’intento di una revisione linguistica del romanzo, che poi effettivamente avvenne e che è testimoniata dalla celebre espressione con cui in una lettera alla madre Giulia Beccaria ebbe a definire la città toscana come quella “nelle cui acque risciacquai i miei panni”. Non riportiamo qua le vicende compositive dei Promessi Sposi successive al soggiorno fiorentino ma ci limitiamo a notare che  suona un po’come beffa il passo dell’epigrafe “volle scrivere egli”, se teniamo conto che tra le novità linguistiche apportate dal Manzoni all’italiano si segnala l’abbandono degli allora diffusi “egli/ella” a favore di “lui/lei”: una delle novità operate dal grande scrittore nel solco di un rinnovamento della lingua italiana che segnò il passo decisivo verso l’italiano moderno.

Simone Salvi

Da I promessi sposi

La limpidezza di certe pagine di prosa manzoniana è inarrivabile. Leggerle è come dissetarsi.

“A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: – è l’Adda! – Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore.”

A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XVII