Dopo la conferenza del Presidente del Consiglio

Certamente, tutto è perfettibile. Anche se fanno eccezione, per esempio, la Divina Commedia, la Pietà Rondanini seppur non finita, la Disputa del Sacramento nella Stanza detta della Segnatura, il Macbeth di Shakespeare, l’ultimo movimento dell’op.111 e il secondo della “Nona”, la Flagellazione di Piero, la volta interna di San Carlo alle Quattro Fontane e la narrazione dell’omicidio della vecchia signora in Delitto e castigo. Ma proviamo a pensare, in una fase della storia dell’umanità e dunque dell’Italia, come quella che stiamo attraversando, a come andrebbe se avessimo come Presidente del Consiglio “il cazzaro” padano.

Simone Salvi

Ibn Hamdis (Siracusa o Noto 1056 circa- Maiorca 1133), poeta siculo-arabo

Ci affascinano le belle che muovono gli occhi

di gazzella in visi rotondi come lune.

Dalle chiome fluenti, dall’incedere aggraziato,

dai glutei pieni, dalla vita sottile.

La fresca giovinezza

profuma la loro bocca dalle labbra di corallo,

dai denti di perla,

come quando lo zefiro, impregnato di abir,

scorre sulla rosa e sulla camomilla.

 

 

scorre sulla rosa e sulla camomilla. 

Ancora per Silvia Romano

TgLa7, poco fa, Enrico Mentana:

“C’è gente che dice: con i soldi del riscatto di Silvia Romano quante cose avremmo potuto fare? Sì, è vero. Per esempio avreste potuto spenderli per istruirvi.”

Bravo, Direttore. Aggiungerei (tanto le critiche vengono soprattutto da lì): chissà cosa avremmo potuto fare con 49 milioni.

Difficile dirlo meglio di così. Ottimo Lorenzo Tosa.

Possiamo girarci intorno quanto vogliamo.

La verità è che quello che non le perdonano, e non le perdoneranno MAI, è di essere una donna e una persona libera.

Non le perdonano di essere partita, due anni fa, per andare ad aiutare bambini che muoiono ancora per una banale diarrea, invece di sfogare le sue “smanie di altruismo” alla Caritas sotto casa.

Non le perdonano di avere 24 anni e credere ancora testardamente nell’umanità, nell’idea che valga la pena, contro ogni evidenza, lottare per quello in cui credi.

Non le perdonano quel sorriso grande così all’aeroporto sbattuto in faccia alla miseria degli odiatori, perché, nella loro idea, dovrebbe essere provata, contrita, quasi scusarsi per “quello che c’è costata”.

Non le perdonano di stare bene, di non pesare 30 chili, di non avere il volto scavato o tumefatto per le botte prese, perché una donna rapita deve almeno portare addosso i segni del martirio, altrimenti significa che è tutta una “messinscena”.

Non le perdonano, infine, di essere scesa dall’aereo con la veste islamica, semplicemente perché non corrispondeva alla favoletta dell’italiana ingenua e avventata rapita dai “tagliagole islamici” sopravvissuta grazie alla propria fede.
E così hanno deciso per lei che le hanno fatto il lavaggio del cervello, che è vittima della “sindrome di Stoccolma”, che, poverina, è sotto choc, non sa quel che fa, dice o prega.

In fondo, se ci pensate, i campioni della “libertà” e della “superiorità” della nostra cultura e della nostra “razza” (quasi sempre maschi, bianchi e ultracattolici) non hanno fatto con Silvia nulla di diverso di quello che, ogni singolo giorno, applicano a ogni singola donna di ogni singola età: decidere per lei cosa deve pensare, come vestire, dove poter andare, che lavoro può o non può fare, che tipo d’uomo sposare, persino quale dio pregare.

E, invece, all’improvviso, arriva questa ragazza milanese di 24 anni e, in un colpo solo, col sorriso più bello mai visto, rovescia secoli di perbenismo, pensiero unico e patriarcato tossico con la sua plateale, sfacciata ambiguità scaraventata contro le loro certezze assolute.

Non c’è traccia di verità assoluta in Silvia. Non c’è il giusto o lo sbagliato, i buoni e i cattivi. C’è solo una ragazza di 24 anni che è sopravvissuta a una prova estrema con una forza e una tenacia che pochi di noi avrebbero anche solo sognato di possedere, e che se ne strafrega di quello che voi aspettiate che faccia o che dica. E ve lo urla con il gesto più empio e irriverente di tutti in questo Paese ipocrita e bigotto: indossare una lunga Jilbab che le copre quasi per intero il corpo. E, per farvelo capire ancora meglio, per un attimo si toglie pure la mascherina e se la ride allegranente dei vostri giudizi e dei vostri pregiudizi, dei vostri insulti e delle vostre etichette.

Che ne sia o meno consapevole, non c’è gesto più autenticamente, orgogliosamente e profondamente laico e femminista di quello che ha appena compiuto Silvia Romano nei confronti di un’intera società di cui tutti quanti noi – volenti o nolenti – siamo permeati.

Uno schiaffo in faccia che sveglia, fa male e brucia.
Ne avevamo un disperato bisogno.
Bentornata Silvia, piccola grande donna libera.
Vai ovunque la vita ti porterà, ma non smarrire mai, per nessuna ragione al mondo, questa libertà.

Nulla è semplice nella Commedia

Nulla è semplice nella Commedia: ogni terzina, certe volte ogni verso, sottendono rimandi a contesti filosofici, teologici, mitologici, astronomici. Poi vi è il valore figurato di molti passi a rendere ancora più complessa la lettura: basti pensare che nella intera Commedia si contano poco meno di cinquecento similitudini. Prendiamo i versi che seguono: in filologia è particolarmente noto, per esempio, il verso 60. I commentatori, sulla base degli oltre ottocento manoscritti (è bene ricordare che non abbiamo nulla, nemmeno una lettera, che sia autografa di Dante), si sono chiesti e si chiedono se il Poeta abbia scritto “quanto ‘l mondo lontana” o “quanto ‘l moto lontana”.
Eppure è evidente che alcuni versi di questa sommo capolavoro della letteratura mondiale risultino BELLI (perdonatemi il maiuscolo e l’aggettivo tanto abusato) anche a fronte di una lettura epidermica. Del resto lo dimostra il fatto che fin dai primi anni successivi alle prime pubblicazioni dell’opera anche la popolazione analfabeta ne conosceva passi a memoria. E badate bene, cari amici, che questa tradizione si è continuata nel nostro Paese almeno fino alla metà del secolo scorso.

“Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:

“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,

l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;

e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.”

Inferno, II 55-66

Dialogo tra me e il sig. Giovangualberto Ceri sulla datazione del viaggio dantesco

Commento del sig. Guovangualberto Ceri a cui ha fatto seguito la mia risposta:

MI RISPONDE così il caro amico SIMONE SALVI alla mia precedente:

– “Gentile Giovangualberto, dunque il Poeta stesso avrebbe confuso le acque facendoci credere di aver collocato il viaggio nel 1300? Certamente converrà che l’astronomia ha fondamenta ben più salde dell’astrologia, e lavori importanti che hanno preso le mosse dalle diverse situazioni astronomiche nella Commedia sembrano confermare la datazione al 1300 (ha letto l’ottimo saggio di S. Doplicher in proposito?). Quanto a quali dovrebbero essere i versi più celebri o più citati della Commedia, va da sé che vi è un’arbitrarietà di fondo, soprattutto quando si tratti di Paradiso. Un saluto cordiale, Simone Salvi. ”

IO così CONTROBATTO al caro Simone Salvi:

Ma indove…???!!! Ma indove…!!!??? Carissimo…!!! Detto fra noi già CORRADO GIZZI, il massimo espero in ASTRONOMIA dantesca fra tutti gli esegeti, così si complimentava con me con la sua del 10 Ottobre 2000: “Si può non condividere la tesi del 1301 come data della visione dantesca, ma non si può non rimanere ammirati, e direi stupiti davanti alla sua eccezionale preparazione, alla sua profonda cultura e alla Sua conoscenza del mondo dantesco che ha pochi riscontri tra i Dantisti”. Una dichiarazione che io fornisco per ABILITAZIONE a trattare sull’argomento.

Dunque, dunque, e veniamo a noi. Il Poeta non avrebbe affatto confuso le acque facendoci credere di aver collocato il viaggio nel 1300″, come tu scrivi, poiché è anzi tutto l’inverso: e tutti e Dantisti lo sanno bene. Dante ha CHIARAMENTE collocato il viaggio nel 1301 ed esattamente dalla festa dell’Incarnazione di Cristo del 1301 alla festa della sua morte in croce del 1301, ma i Dantisti, sotto la spinta dei desiderata della Curia romana, come così chiama Ugo Foscolo la santa Inquisizione, c’è da credere che abbiano piegato la testa e ci hanno fatto credere che il viaggio sia avvenuto nel 1300 e non affatto nel 1301 come decretato dai pianeti. Lo scrive autorevolmente anche il Filosofo Edmund Husserl: “non esisteva nell’antichità e nel medioevo una scienza che avesse il télos, il senso, della nostra ASTRONOMIA: e Dante è un uomo medievale.

Per sapere cosa Dante dice, bisogna allora padroneggiare la scienza che lui padroneggiava: l’Astrologia Tolemaica del settimo cielo di Saturno. Non esiste altra SCORCIATOIA, anche se i Dantisti pensano di potersela permettere. NON ESISTE nessun importante studio astronomico che dica che il “viaggio” è avvenuto nel 1300. LEGGI meglio…!!! Esistono invece dei lavori astronomico-danteschi assai MEDIOCRI, per non dire molto sprovveduti, da me tutti smentiti nella rivista “Sotto il velame” di Torino diretta da Renzo Guerci, ovviamente salvo il lavoro nobilissimo e faticosissimo di CORRADO GIZZI su cui anch’io mi sono formato: la scusa del Gizzi nel dire 1300 rientra però fra quelle note ma sbagliatissme: forse in lui per “timidezza” ad opporsi alla Tradizione.

Tutti gli ASTRONOMI dicono dunque che gli ASTRI indicano il 1301, e come potrebbe essere diversamente, è un fatto OGGETTIVO…!!! Allora essi trovano questa scusa: gli astri indicano 1301 perché Dante ha sbagliato ad osservarli, oppure perché a consultato un almanacco sbagliato, o sbagliando pagina a leggerlo, o perché “DORMIVA” in quanto tutto preso dalla sua alta poesia a fantasia. Se non ci fosse da piangere, bisognerebbe mettersi a ridere, Caro Salvi. Anche PATRICK BOYDE, Serena Professor of Italian Language and Literature in the University of Cambridge , nel suo famoso volume “L’uomo nel cosmo” ( il Mulino – 1984) che sta alla base della recente decisione di festeggiare il “DANTEDI’ il 25 MARZO, sostiene che DANTE “scelse di IGNORARE nella Commedia il Fenomeno della Precessione degli equinozi (fenomeno fondamentale di tutta l’ASTROLOGIA DANTESCA) perché altrimenti avrebbe confuso i lettori” (ivi pp. 274 -275). Ma che CAZZATA, ma che CAZZATA è mai questa. Boyde non è riuscito a capire, per mancanza di SCIENZA, o ugualmente per ignoranza, come Dante fa a datare usando il fenomeno della precessione degli equinozi, e allora conclude che Dante del fenomeno se ne strafotte. E questo ci ha anche la cattedra a Combridge: e nemmeno si ferma lì, nemmeno, nemmeno…!!!! Infatti poi, in più!, BOYDE mi invia anche in data 13 Luglio 1994 una lunghissima lettera per dirmi che lui è uno SCOLAR e io invece un OUTSIDER, e che lui, con gli outsiders, non si mescola.

Ma che specie di amore per Dante hanno questi Dantisti che, per non sporcarsi le mani con un inferiore e chiarire, lasciano che il sommo Poeta marcisca nella menzogna. Ma, però!, è così. Anche se sarebbe l’ora di abbozzarla Inoltre Dante, seguendo Tolomeo, già dimostra, nello stimare il movimento e la virtus umorale emanata dai pienati, di comportarsi come se sapesse che il sistema è ELIOCENTRICO e non GEOCANTRICO: ed è facile dimostrarlo, se uno ama accorgersene.
DANTE non ha affatto confuso le acque: Sono i Dantisti che si sono invece confusi il cervello forse per far prima a pubblicarci sopra il loro libro: durarla…!!! (questo almeno credo che pensi la Curia romana). Amen.

ECCO LA MIA RISPOSTA AL SIG. CERI:

Sig. Ceri,

nella sua replica, che non esiterei a definire tra l’altro un tentativo di autocelebrazione, manca ogni riferimento agli aspetti testuali contenuti dalla Commedia che rendono poco credibile la collocazione del viaggio ultramondano di Dante nel 1301. Cercherò di essere sintetico, senza soffermarmi troppo sui commenti, ma sarò ben lieto di approfondire nel caso ci saranno richieste in tal senso da parte degli amici del Gruppo.

Dunque, la terzina che più di altre ha fatto discutere commentatori, dantisti e astronomi circa la data del viaggio di Dante è quella celebre e bellissima di Purgatorio I “Lo bel pianeto che d’amar conforta/ faceva tutto rider l’orïente,/ velando i Pesci ch’erano in sua scorta.” (19-21), con la quale Dante descrive una situazione astronomica ben precisa: la presenza di Venere nella costellazione dei Pesci. Siamo all’alba e Venere che sorge come Lucifero,  ossia portatore delle luce del nuovo giorno e dunque prima del Sole, nasconde con il suo alone luminoso la citata costellazione. I dati ci indicano chiaramente che questo quadro astronomico non avvenne nel Marzo del 1300 ma bensì nel 1301. Sappiamo infatti che nel Marzo del 1300 Venere appariva come vespertino, ovvero sorgeva alla sera dopo il tramonto del Sole. Ecco, come dicevamo, questo passo del Purgatorio ha fatto nascere l’ipotesi del viaggio nel 1301. Tuttavia numerosi elementi del contesto narrativo che ricaviamo in modo preciso sia dalla Commedia sia dal Convivio (è bene ricordare che questo trattato è fondamentale anche per comprendere certi passi della Commedia) sono tutti a favore del 1300. Due sono evidenti e strettamente legati alle vicende narrate nel Poema: il Giubileo, che come sappiamo senza alcun dubbio avvenne nel 1300, e il celebre incipit del Poema “Nel mezzo del cammin di nostra vita”,  che ci fornisce una chiara indicazione temporale. Mentre il riferimento al Giubileo è un dato storico trasparente, forse può essere utile soffermarsi sul verso che apre l’opera ricorrendo a un passo del Convivio, dove si legge: “La dove sia lo punto più sommo di questo arco… io credo che nelli perfettamente naturati esso sia nel trentacinquesimo anno (IV XXIII 9), in cui arco  si riferisce al corso della vita. Del resto è bene ricordare che anche le Scritture (mi perdonerà, sig. Ceri, ma spero non arriverà a voler sostenere che i riferimenti alle Scritture non siano fondamentali per comprendere tutto il Dante), in accordo con le teorie aristoteliche a loro volta riprese da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino fissano a settanta anni la durata delle vita dell’uomo: “Dies annorum nostrorum… septuaginta anni” – Salmo 89, 10). Ma andiamo avanti lungo il testo nella Commedia, dove già nell’Inferno troviamo due passaggi che ci riportano con rigore matematico al 1300. Il primo di questi passaggi è nel canto X, noto come “il canto di Farinata” dal nome del personaggio che ne è protagonista, dove nella terzina compresa nei versi 79-81 si legge: “Ma non cinquanta volte fia raccesa/ la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa.” Senza soffermarmi troppo sul contesto, di un canto che peraltro è tra i più noti anche al pubblico dei non specialisti, mi limito a riportare il significato di questi versi: Farinata sta dicendo a Dante che non passeranno cinquanta mesi (non si accenderà cinquanta volte la faccia della Luna, Dea degli Inferi insieme a Proserpina) che egli saprà a sue spese come sia difficile l’arte del ritorno.  Il contesto del dialogo tra Dante e Farinata è quello delle lotte tra Guelfi e Ghibellini: la storia ci riporta che tutti i tentativi dei Guelfi Bianchi di rientrare in Firenze fallirono e Dante ruppe definitivamente con loro nel giugno del 1304, non approvando la scelta dei fuorusciti di cimentarsi nella Battaglia della Lastra, e cioè trascorsi cinquanta mesi esatti dal viaggio collocato nel 1300. La data della battaglia citata, svolta nel mese di Giugno dell’anno 1304 è un dato storico, ampiamente testimoniato e dunque indiscutibile. Il secondo di questi  passaggi è nel canto dei barattieri, il XXI, dove ai vv. 112-114 leggiamo: “Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’otta,/ mille dugento con sessanta sei/ anni compié che qui la via fu rotta”. Ancora senza fermarmi troppo sul contesto del canto, basti solo sapere che a parlare è uno dei diavoli di Malebolge, che si rivolge a Virgilio spiegando che 1266 anni prima più cinque ore, il ponte che porta alla bolgia successiva era crollato. Ed era crollato con la morte di Cristo, che le Scritture collocano nel 34esimo anno dall’Incarnazione. Se aggiungiamo 34 anni ai 1266 otteniamo 1300. Tra l’altro conviene sottolineare che tutti i dantisti (sig. Ceri, non gliene voglia) sono concordi nel ritenere questo il riferimento temporale più preciso all’interno della Commedia circa la data del viaggio immaginato da Dante. Un altro chiarissimo elemento a sostegno del 1300 lo troviamo nel canto II del Purgatorio, dove si colloca il bellissimo episodio dell’incontro tra Dante e l’amico Casella. “veramente da tre mesi elli ha tolto/ chi ha voluto intrar, con tutta pace.” leggiamo ai versi 98-99. Versi che alludono al già richiamato Giubileo indetto da Bonifacio VIII per il 1300 ma per il quale la possibilità di lucrare sulle indulgenze era già avviata dal Natale dell’anno precedente, cioè da tre mesi prima. Dunque un altro incontrovertibile dato a favore del 1300. Per chiudere il cerchio e concludere torniamo allora alla discussa terzina di Purgatorio I e domandiamoci come si possa spiegare la discordanza tra la scena astronomica ivi descritta, accaduta nel 1301 e gli altri passi citati. Qua ci è concesso di rimanere nell’àmbito delle ipotesi e le spiegazioni proposte sono essenzialmente due. La prima, quella più largamente accettata e possiamo dire anche quella più ragionevole, è che Dante fosse ben consapevole che il contesto celeste che scrivendo quel passo del Purgatorio si appressava a descrivere risalisse al 1301 e dunque che abbia adattato la situazione astronomica alle esigenze del testo. A questo punto potremmo però subito domandarci se fosse così necessario descrivere con tanta precisione Venere come Lucifero: la risposta è sì, in perfetta coerenza con il contesto del canto. Il Purgatorio si apre con l’alba, che fin dall’antichità è rivestita del significato di rinascita, di speranza, e la speranza è uno dei grandi sentimenti che dominano tutta la Cantica. Inoltre Venere come astro del mattino è presente negli inni liturgici intonati proprio all’alba. L’altra spiegazione proposta è che Dante sia caduto in errore consultando l’almanacco di Prophacius Judaeus ( 1236-1304), molto in uso nei primi del Trecento, che però descrive le situazioni astronomiche di Venere solo a partire dal 1301. Un caro amico, illustre fisico-matematico e appassionato studioso di Dante, Sergio Doplicher, nel suo ottimo saggio dantesco “O sol che sani ogne vista turbata” (2013 Edizioni Edicampus, Roma) ha suggerito un’altra ipotesi, forse più romantica e che prende le mosse dalla sua passione per l’osservazione del cielo, secondo la quale Dante fosse solito ammirare il cielo (come sembrano indicarci alcuni passi della Commedia, come “Chiamavi ’l cielo e ’ntorno vi si gira,/mostrandovi le sue bellezze etterne, e l’occhio vostro pur a terra mira;” Pg., XIV 148-150) e che scrivendo il Purgatorio, presumibilmente intorno al 1313,  abbia voluto richiamare a memoria l’immagine di Venere che vela i Pesci, da lui stesso osservata, sbagliando di un anno.

Simone Salvi