Riflessione di Primo Levi sul valore salvifico della cultura

“A me, la cultura è stata utile; non sempre, a volte forse per vie sotterranee ed impreviste, ma mi ha servito e forse mi ha salvato. Rileggo dopo quarant’anni in Se questo è un uomo il capitolo Il canto di Ulisse […] Ebbene, dove ho scritto «darei la zuppa di oggi per saper saldare “non aveo alcuna” col finale», non mentivo e non esageravo. Avrei dato veramente pane e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi, che oggi, col supporto sicuro della carta stampata, posso rinfrescare quando voglio e gratis, e che perciò sembrano valere poco. Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un legame col passato,salvandolo dall’oblio e fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso.”

Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986

“Non avea alcuna” è il finale del verso 135 del canto XXVI dell’Inferno della Commedia di Dante Alighieri.

Il libraio Thiam

Thiam fa il libraio, ha una libreria di libri usati a Pisa, in via Carducci, ed un sito internet tramite cui è possibile acquistare vecchi libri.
Incuriosito dalla piccola stanza, affacciata sulla strada, trabboccante di volumi di ogni genere, sono entrato a conoscerlo e poi gli ho scattato queste due foto.
Thiam viene dal Mali, nazione africana sconvolta negli ultimi anni dal dilagare dell’estremismo islamico, da decenni alle prese con la piaga ambientale della desertificazione (si stima che 400.000 ettari di copertura vegetale vengano persi ogni anno). Un Paese dove la gente muore di sete per strada, pur essendo Il terzo maggiore produttore di oro del continente, oro che, esportato in tutto il mondo, arricchisce un pugno di mercanti e le compagnie proprietarie delle miniere, che lucrano sulla pelle di un intero popolo, vessato sino alla morte.
Arrivare dal Mali per aprire una libreria di libri usati a Pisa, in un’epoca culturalmente così buia, come quella in cui stiamo vivendo in questi anni, in cui si perde ogni giorno di più l’abitudine a leggere testi che superino i 150 caratteri, ed in cui i vecchi libri di carta rischiano l’oblio, al buio di polverose soffitte ed umidi scantinati, è una storia che mi riscalda il cuore. Una bella storia che merita di essere raccontata e condivisa.
A volte, attraversare il deserto dell’anima è più difficile che attraversare quello di sabbia.

Che la cultura possa essere acqua, ad irrigare l’inaridito terreno dell’animo umano.

Se volete regalarvi/re un libro questo Natale, sappiate che c’è anche http://www.illibrousato.net

Vincento Moro

Perché Dante è davvero “padre”- Contributo per una corretta definizione di paternità dantesca

“Peregrino, quasi mendicando, sono andato, […] Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento che secco che vapora la dolorosa povertade.” ( Convivio, I, iii, 4-5 ). Con queste parole Dante descrive la propria condizione di esule, allora appena iniziata dato che la stesura del Convivio si colloca tra il 1304 ed il 1307. Nel Gennaio del 1302 la città di Firenze aveva condannato in contumacia con due sentenze, la prima del 18 e la successiva del 27 del mese, il Poeta all’esclusione perpetua dalle cariche pubbliche, al bando al confino per due anni e al pagamento di una consistente ammenda, quale falsario e barattiere. Nel Marzo dello stesso anno, non essendosi Dante e gli altri imputati presentati a rendere conto dei loro reati e a pagare l’ammenda, la pena si tramutò in condanna a morte. Sappiamo che i reali motivi della condanna risiedono nella complessa situazione delle lotte intestine alla città di Firenze ed in particolare a quelle tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri della parte Guelfa, nelle quali si inserirono le vicende in corso su più larga scala dello scontro tra Impero e Papato. Fatto sta che per il maggior poeta della letteratura italiana iniziò una vita da esule migrante che si concluderà solo con la morte, presso i lidi ravennati, nel 1321. Proprio durante i sofferti anni dell’esilio, in un’Italia che politicamente non esisteva se non in frammenti sotto forma di corti, Dante, lontano dalla sua Firenze e avendo per “patria il mondo“, come scrive nel De vulgari eloquentia ricorrendo ad una splendida ed efficacissima similitudine, (“noi, a cui patria è il mondo come ai pesci il mare” DvE, I, VI, 3) con un vantaggio di oltre cinquecento anni sull’unità politica del Paese, inventa la lingua italiana facendo assurgere a tal ruolo il fiorentino letterario del suo tempo. Dante si fece quindi padre della lingua italiana e, come artefice della prima unificazione della futura Italia, quella linguistica, appunto, padre dell’Italia stessa. La qualifica di “padre” è attribuita al Poeta già a partire da pochi anni dopo la sua morte dal rimatore Antonio da Ferrara (1315- 1374) in una sua lettera al collega e rimatore ravennate Menghino Mezzani, nella quale il ferrarese invoca Calliope affinché sia di aiuto ad un “nobile” sodalizio di poeti in volgare a seguire senza fatica e senza difetto le orme del “padre” Dante: “a zò che questo nobil sodalizio , / in volgar poesi’, senza fatica/ seguisca il padre Dante, senza vizio.” Padre lo è stato anche in tempi a noi più vicini per Foscolo (O Padre! O Vate!), Carducci e D’Annunzio. Sulla paternità linguistica di Dante si vedano i risultati di un mirabile lavoro del compianto professor Tullio De Mauro, il quale , con l’ausilio prezioso degli strumenti informatici, ha quantificato tale paternità dimostrando che la lingua che oggi parliamo sia stata codificata per oltre il 90% da Dante agli inizi del Trecento. Uno splendido omaggio alla paternità linguistica dantesca dell’italiano si trova anche in un dialogo contenuto nel romanzo di Thomas Mann “Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull”, dove il portiere di un albergo interrogato da un avventore sulla lingua italiana afferma “Gli angeli in Cielo parlano italiano“. Dunque se uno dei massimi rappresentanti della letteratura mondiale colloca l’italiano in Paradiso e sulla bocca degli angeli, è grazie al “padre” Dante. Sulla condizione di Dante esule molto si è scritto, partendo dai riferimenti che il poeta stesso ne fa nei già citati De vulgari eloquentia e Convivio, ma soprattutto nella Commedia. Nel poema l’esilio è profetizzato, post eventum, nell’Inferno da Ciacco, Farinata degli Uberti e Brunetto Latini; nel Purgatorio le profezie continuano a partire dal canto VIII con quella di Corrado Malaspina, presso la cui corte Dante soggiornò nei primi anni del suo peregrinare, e nel canto XI, ambientato nel girone dei superbi, da Oderisi da Gubbio attraverso la vicenda di un suo compagno di penitenza, il senese Provenzan Salvani. Costui “si condusse a tremar per ogni vena” (Purg. XI, 138) umiliandosi a chiedere l’elemosina nella Piazza del Campo per riscattare un suo amico fatto prigioniero da Carlo d’Angiò. Con la vicenda di Salvani inizia quella identificazione figurale tra personaggio costretto a mendicare e Poeta stesso che troverà ancor più efficace riscontro nel canto VI del Paradiso dove l’imperatore Giustiniano, il cui eloquio occupa l’intero canto, racconta a Dante la vicenda di Romeo di Villanova, un tempo Ministro del Conte di Provenza Raimondo Berengario, che calunniato dalle invidie di qualche altro personaggio di corte, offeso e umiliato, non cede al suicidio come Pier della Vigna (Inferno, XIII) ma affronta la sofferenza dell’esilio e della povertà con dignità e coraggio, mendicando il pane a tozzo a tozzo: “indi partissi povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe” (Par. VI, 139- 142). Ai giorni nostri, dove i flussi migratori ci pongono continue e importanti riflessioni e generano innumerevoli dibattiti, si è tentato di utilizzare Dante in funzione anti- migranti: a tal proposito si recuperi in rete un articolo apparso sul quotidiano Il Giornale nel Maggio 2015 a firma di Matteo Carnieletto dove si equipara l’inurbamento a Firenze dei mercanti del contado fiorentino mossi dall’aspettativa di maggiori guadagni alla presunta invasione degli odierni migranti. Sarebbe forse più opportuno sorvolare su tentativi come questo, (del resto chi vorrà leggere l’articolo ne trarrà le ovvie conclusioni) ma risulta almeno doveroso far notare che prendere di peso una terzina da un canto della Commedia, strapparla dal suo contesto medievale e attribuirle una valenza moderna a sostegno di una tesi di comodo, avulsa da un benché minimo tentativo di storicizzazione, è operazione culturalmente improponibile e indegna di un giornalismo serio. Così come sono spesso fallaci i tentativi di attualizzare, quasi a tutti i costi, il pensiero di Dante uomo: lo si è spesso fatto, ad esempio, in funzione anti- Islam citando la punizione che nella Commedia è riservata a Maometto. Dante era un uomo profondamente del suo tempo, estremamente radicato nel sistema culturale- filosofico dell’epoca, e volerlo portare di peso nella contemporaneità produce spesso risultati scarsi, quando non ridicoli. Certamente, Dante era, è e sarà moderno per alcuni suoi aspetti, anzitutto quello linguistico, come abbiamo sopra accennato, e per alcuni aspetti del suo pensiero, tra i quali il suo aprire le porte all’Umanesimo per il suo incessante interrogarsi su quanto stesse facendo come uomo e come poeta. Nel dibattito intorno al tema delle migrazioni può essere chiamato in causa per stimolarci ad una riflessione: occorre tenere a mente che l’identità di un individuo si realizza, prima che in ogni altro aspetto, nella lingua materna, così potentemente agganciata alla cultura e agli affetti, assai più che attraverso la parte del mondo in cui si poggiano i piedi. Mondo nel quale, come scrisse Paolo Rumiz in un suo reportage dai Balcani devastati dalla guerra e pubblicato su Repubblica, “i pesci non hanno bandiera e il mare è salato ovunque”. In una Italia nella quale da quattro anni consecutivamente le nascite si attestano sotto la cifra di 500 mila all’anno e ogni anno in diminuzione rispetto al precedente, nel tanto e talvolta vacuo parlare di integrazione, dovremmo iniziare a considerare che le immigrazioni sono davvero una risorsa, che non ci si può sottrarre al dovere di accogliere chi fugge da guerre e fame e che un sano tentativo di integrazione dovrebbe partire proprio dall’insegnamento dell’italiano ai nuovi arrivati.

Simone Salvi

Lettera a Marco Travaglio in merito ad un suo editoriale del 29 Ottobre

Gentilissimo direttore Marco Travaglio,

Sotto la voce Legalità proprio all’inizio del suo editoriale di lunedì 29 ottobre “Ma mi faccia il piacere” leggo una bella stilettata a Domenico Lucano, per Lei come per il “cazzaro verde” Salvini, responsabile del “reato di solidarietà”, in cui la violazione dell’oscena legge Bossi-Fini compiuta da Lucano come sacrosanto atto di disobbedienza civile, viene liquidato con le parole:” Stavo giusto cercando un alibi per fare una rapina, ora procedo”. L’equiparazione del gesto di Lucano a un grave reato penale quale la rapina non Le fa certo onore. È davvero ridicola e vergognosa. Io invece sto dalla parte di Lucano, di Don Milani in “L’obbedienza non è più una virtù”, di Antigone quando viola la legge di Creonte che le proibisce di seppellire il fratello Polinice, per il mondo classico una mostruosità inaccettabile. Gradirei una risposta alla seguente domanda che perfeziona la frase di Lucano: i sindaci italiani nel 1938 dovevano applicare le leggi razziali di Mussolini rendendosi complici della deportazione degli ebrei in Germania e del loro massacro nelle camere a gas o avevano il dovere, qualora ne avessero avuto il coraggio, di violare la legge dello Stato perché contraria al diritto consuetudinario che è preordinato a qualsiasi legge statale? Ma veniamo ora all’esame spietato della famigerata legge Bossi-Fini che sembra di suo gradimento: è proprio sicuro che sia rispettosa della Costituzione Italiana o non Le viene il sospetto che sia largamente incostituzionale? Non sarebbe quindi doveroso che un sindaco si rifiutasse di applicarla o quanto meno sollevasse il dubbio sulla sua aderenza alla Costituzione di fronte alla Corte Costituzionale? Si può facilmente dimostrare che la Bossi -Fini è incostituzionale perché, tra l’altro, priva del requisito fondamentale della ragionevolezza e perché contiene norme in palese contrasto con i principi dei trattati e delle convenzioni internazionali.

Il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. va interpretato sia in connessione “con l’art.2 che, prevedendo il riconoscimento e la tutela dei “diritti inviolabili dell’uomo” non distingue tra cittadini e stranieri, ma garantisce i diritti fondamentali anche riguardo allo straniero (così Corte Cost. sent. 18 luglio 1986, n.199), sia in connessione con l’art.10, comma 2, Cost. che rinvia a consuetudini e ad atti internazionali nei quali la protezione dei diritti fondamentali è ampiamente assicurata. Inoltre la Corte Costituzionale ha più volte affermato che “la regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici quali ad esempio la sicurezza e la sanità pubblica, l’odine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità limitata, sotto il profilo della conformità alla Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli. Il legislatore nelle sue scelte incontra i limiti imposti dalle norme di diritto internazionale e dei trattati internazionali e, scrive la Corte, “ciò comporta il rispetto da parte del legislatore del canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive” (sent. n. 206/2006 e ord. n. 361/2007) (Bonetti P., 2011, Diritti fondamentali degli stranieri, L’altro diritto). Tornando alla legge Bossi-Fini, quali sono alcuni dei suoi capisaldi? Ingresso: può entrare in Italia solo chi è già in possesso di un contratto di lavoro che gli consenta il mantenimento economico. Permesso di soggiorno: viene concesso solo a chi possiede un contratto di lavoro. Se questi fossero stati i requisiti pretesi dalle autorità americane ai tempi delle grandi migrazioni di Italiani poveri tra otto e novecento, di Italiani in America non ne sarebbe entrato nemmeno uno. La pretesa che il migrante, arrivato da paesi poverissimi e fuggito da guerre, persecuzioni, disastri ambientali, tipo inondazioni, siccità, arrivi alla frontiera già munito di regolare contratto è semplicemente ridicola, irragionevole e poteva essere partorita solo dalle menti eccelse di due individui, quali Bossi e Fini screditati oltre ogni dire dalle loro ben note vicende personali. A questo punto le domande sono: che fine ha fatto “il canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza”? Non sono forse manifestamente irragionevoli le norme della Bossi-Fini e quindi non più conformi alla Costituzione (vedi sopra)?

Ma la pecca più grave della Bossi-Fini è la seguente: la legge ammette i respingimenti al paese di origine in acque extraterritoriali, in base ad accordi bilaterali fra l’Italia e altri paesi (vedi Libia con i suoi lager infernali) che impegnano le polizie a cooperare per prevenire l’immigrazione clandestina. Questa norma, data

l’impossibilità di verificare seriamente in mare se il singolo migrante ha diritto di asilo oppure no, finisce per tradursi in un respingimento collettivo, vietatissimo da tutti i trattati e le convenzioni internazionali. Per tornare al sindaco Lucano, come si doveva comportare? Doveva forse rispettare pedissequamente le norme della Bossi-Fini? O non doveva piuttosto attenersi scrupolosamente ai principi degli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione? Come si vede il rifiuto del sindaco Lucano di attenersi a una legge viziata da numerosi rilievi di incostituzionalità è una scelta coraggiosa e aderente alla legge suprema che è la Costituzione.

Per darle modo di constatare quanti profili di incostituzionalità emergano da un attento esame della Bossi-Fini Le allego una raccolta di siti internet che illustrano quanto quella legge sbagliata e rozza sia lontana dalla nostra splendida Costituzione.

Mi dispiace dissentire in modo così feroce dalle sue opinioni sul fenomeno migratorio anche perché ho sempre apprezzato molto le sue critiche ben documentate al berlusconismo e al renzismo che condivido pienamente. La notai già ai tempi del quotidiano “La Voce” che ho regolarmente comprato dal primo all’ultimo numero. Su Lucano e sulla tragedia dei migranti sono invece in totale disaccordo con molti dei suoi editoriali in materia.

Malgrado il dissenso La saluto molto cordialmente e auguro lunga vita al Fatto Quotidiano di cui sono da sempre affezionato lettore.

Mariano Puxeddu